Speciale - Arte e videogiochi - Homo Ludens e Homo Sapiens

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Il Corriere della Sera riapre l'annoso dibattito con una proposta polemica ma interessante...

Sul Corriere della Sera di oggi (a pagina 25, l’articolo purtroppo non è ancora disponibile online), Pierluigi Panza, critico d’arte e professore di estetica, ha commentato la decisione del MoMA di accogliere nella sua collezione permanente alcuni videogiochi, esponendone 14 durante una mostra recente.

Panza, anziché lanciarsi nel classico peana contro i “giochini”, come molto poco saggiamente aveva fatto qualche mese fa un suo noto collega, apre un interessante dibattito sul valore del (video) gioco come forma d’arte, tracciando una linea di separazione abbastanza netta fra l’homo ludens, e l’homo sapiens, in grado di rapportare la materia alla storia, creando così le espressioni artistiche. Nello spesso stucchevole dibattito riguardo lo status intellettuale del nostro medium la posizione dell’autore dell’articolo apre uno spiraglio interessante che, seppur con qualche riserva, ci sentiamo di condividere.

Il videogioco in se non rappresenta una forma di espressione artistica, né tantomeno, per ora, può ambire a rappresentare qualcosa di più rispetto un mero strumento narrativo. Il motivo è abbastanza semplice: il nostro media è troppo giovane, molte delle sue potenzialità ancora non si sono espresse e, nella maggior parte dei casi, si trova costretto a riciclare codici espressivi mutuati da altri prodotti decisamente più maturi dal punto di vista storico. Sceneggiature come quella di The Last of Us non andrebbero molto oltre la mediocrità in campo cinematografico, figuriamoci se provassimo ad accostarle alla grande letteratura mondiale, allo stesso modo la metanarrativa di The Stanley Parable appare un piccolo abbozzo se paragonata agli esperimenti di Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore. Passando al versante estetico, davvero qualcuno può anche solo pensare che Bayonetta o The Wind Waker siano nella stessa categoria dei film di Lynch o dei quadri di Wharol?

Il videogioco, per quanto in costante evoluzione, è ancora un prodotto spurio, in ogni senso figlio della sua epoca. Dunque Panza ha ragione quando scrive:

Il museo nasce dalla concezione illuministica di radunare le preziosità del passato - quelle sopravvisute perché conservate dalla memoria affettiva degli individui - per trasmetterle alle generazioni future. Oggi però i musei contemporanei patrimonializzano tutto e subito, anche ciò che non ha ancora esaurito i suoi significati nel mondo della vita.

Noi che lavoriamo nell’industry e ogni giorno ne commentiamo gli alti e bassi dobbiamo stare molto attenti a non cadere nella trappola che Panza descrive: l’ossessione per l’artisticità rischia di mettere in secondo piano la dimensione ludica del videogioco, consegnandoci mani e piedi legati alla mercé di chi, con poca intelligenza e moltissima arroganza, vorrebbe trasformare il gaming nell’eterna riparazione dei propri sogni frustrati. Non dobbiamo lasciare che accada e, per farlo, dobbiamo riconoscere serenamente i nostri limiti. I videogiochi non sono pronti per il MoMA così come non lo sono per nessun museo del mondo, anzi, dobbiamo proprio sperare che nei musei non ci entrino mai. Un NES sotto una teca riporta alla mente un passato glorioso ma polveroso e lontano, un NES attaccato al proprio televisore di casa, invece, esprime ancora le stesse gioie degli anni ‘80. L’arte forse manca, ma la magia, ve lo assicuriamo, è ancora del tutto intatta.

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