Speciale American Horror Story – Murder House, il primo orrore non si scorda mai

Il viaggio alla riscoperta delle prime quattro stagioni dello show di Ryan Murphy parte da una casa stregata. Ecco il primo anno di American Horror Story

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Dove Ryan Murphy inizia a prendere le misure. La prima stagione di American Horror Story, successivamente denominata Murder House, è forse quella più ricca di citazioni, più trasversale nei generi omaggiati, più definita come stile. Molto è cambiato nel corso degli anni nell'approccio al materiale, negli intrecci costruiti, mentre qualcosa – gli attori ricorrenti – è rimasta uguale. In ogni caso parte da qui il nostro viaggio verso la quinta stagione della serie antologica di Ryan Murphy, che come sappiamo sarà ambientata in un hotel e vedrà la partecipazione, tra le altre, di Lady Gaga.

Ma cosa ci ricordiamo veramente a distanza di quattro anni? Una casa maledetta, un uomo con una tuta nera di lattice, una sensuale cameriera, Jessica Lange che dispensava inquietudine in ogni dove e che alla fine era forse l'unica a uscire vittoriosa dalla vicenda. Mancava ancora Kathy Bates, ma al suo posto c'era Kate Mara – prima di prendere un treno con Frank Underwood e prima della poco brillante parentesi come Sue Storm – e c'era Mena Suvari. E, in una serie che nonostante il titolo non ha mai fatto paura nemmeno per sbaglio, c'erano gli unici momenti veramente inquietanti mai visti in quattro anni: il primo già nel pilot, quando ancora non avevamo idea di cosa aspettarci, con una bella scena in una cantina dove si nascondeva una presenza oscura; il secondo, qualche puntata dopo, con il mantra "Piggy Piggy" ripetuto allo specchio.

L'idea di una casa maledetta evoca immediatamente una serie di fantasmi cinematografici che Murphy conosce bene e che al tempo stesso sono ben accessibili ad ogni spettatore. Idee che vanno dal thriller psicologico all'horror, dallo slasher all'home invasion. Vivien viene avvicinata e ha un rapporto con la – fino a un certo punto – misteriosa entità in nero. Qualcosa di demoniaco cresce dentro di lei, l'idea della pazzia che a poco a poco si fa strada fino alla tragica scoperta e al finale per nulla consolatorio. Praticamente un Rosemary's Baby che nel finale si trasforma in Omen.

Tanta depressione, ma Vivien non è l'unica a pagare, con il marito Ben – ma non ci dispiace troppo – che prima nega l'evidenza, poi viene suggestionato da un paziente che teme di pronunciare delle parole allo specchio (Candyman), poi, quando tutti intorno a lui sono morti, inizia vagamente a sospettare qualcosa, e poi muore. In mezzo c'è anche un po' di pazzia paterna che riecheggia Amytiville Horror, Shining e il più recente Darkness. E poi c'è l'idea della casa che diventa una spugna per traumi secolari, ferite che non si rimarginano, ma continuano a sanguinare e a far sanguinare gli occupanti. E questo è un topos talmente radicato e sfruttato che è impossibile anche solo pensare di trarne un elenco.

Ancora lontano dagli anacronismi delle canzoni di David Bowie e Nirvana e dagli sperimentalismi dei momenti musical come "The name game", la stagione si lasciava andare all'utilizzo di temi riconoscibili come Psycho, Dracula, addirittura il famosissimo Twisted Nerve che tutti associano a Kill Bill, ma che ha una storia più lunga. Tra un "normal people scare me" e un "you're gonna die in there", era un delirio. Funzionava? A posteriori, considerando il tonfo delle ultime due stagioni, sì.

In quel momento la storia poteva sembrare un po' sfilacciata, quasi improvvisata, il finale troppo sospeso, i personaggi troppo incoerenti e assurdi nei loro comportamenti. Negli anni questo è diventato un marchio di fabbrica dello show, e al tempo stesso la sua condanna. In retrospettiva questo ci ha permesso di guardare a Murder House con un occhio più di riguardo, come un particolare esperimento abbastanza riuscito. Salutiamo quindi gli Harmon, che come gli spettri di Others alla fine diventeranno loro stessi i guardiani della loro maledizione, e spostiamoci in un manicomio, con la migliore stagione dello show.

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