Il Diavolo Veste Prada compie 10 anni, il nostro speciale

Il Diavolo Veste Prada compie 10 anni: riscopritelo nel nostro speciale!

Redattore su BadTaste.it e BadTv.it.


Condividi

Il Diavolo Veste Prada compie 10 anni. Uscito il 30 maggio del 2006, il film di David Frankel ha riscosso immediatamente un enorme successo incassando oltre 300 milioni di dollari a livello globale, a fronte di un budget di appena 35. Tratto dal romanzo di Lauren Weisberger, pubblicato nel 2003, è valso a Meryl Streep la quattordicesima candidatura all’Oscar, la ventunesima al Golden Globe e la nona agli Screen Actor Guild Awards. Ha consacrato Anne Hathaway nell’olimpo delle dive hollywoodiane di nuova generazione, regalandole una carriera culminata nell'Oscar per Les Misérables del 2013. A distanza di un decennio dall'uscita nelle sale, proviamo a ripercorrere le ragioni che hanno fatto la fortuna delle disavventure della giovane Andy Sachs alle prese con la tirannica e spregiudicata Miranda Priestly.

Gordon Gekko della moda?

“Tutti vogliono essere noi”. Dopo aver passato un’ora e mezza a stressare i suoi collaboratori e a ordire trame per tenere le redini di un vero e proprio impero, Miranda Priestly quasi ci rassicura svelandoci finalmente qualcosa di semplice: in fondo, si tratta solo di potere. Un po' come in Wall Street, nel quale in fin dei conti è tutta una questione di soldi. Miranda è a tutti gli effetti una sorta di Gordon Gekko della moda, con il potere di indirizzarne pesantemente corsi e ricorsi: “E’ il direttore di Runway, oltre a essere una leggenda vivente!” esclama Emily Charlton; “Non l'hai ancora capito? La sua è l’unica opinione che conta” fa notare Nigel a Andy. Chiaramente, il film di David Frankel e quello di Oliver Stone non potrebbero essere più diversi e distanti, sia nei toni che nelle intenzioni. Tuttavia, come il perfido trader di Michael Douglas, anche Miranda con un semplice monologo è stata in grado di smontare la consapevolezza delle scelte di parte del pubblico, agganciandole a un disegno studiato a tavolino per manipolarne le preferenze di consumo: “Tu pensi che questo non abbia nulla a che vedere con te. Tu apri il tuo armadio e scegli quel maglioncino infeltrito perché vuoi gridare al mondo che ti prendi troppo sul serio per curarti di cosa ti metti addosso” sentenzia a un'impreparata Andy, “Ma quello che non sai è che quel maglioncino non è semplicemente azzurro, non è turchese, non è lapis. E’ effettivamente ceruleo. E sei anche allegramente inconsapevole del fatto che nel 2002 Oscar de la Renta ha realizzato una collezione di gonne cerulee e poi è stato Yves Saint Laurent a proporre delle giacche militari color ceruleo. E poi il ceruleo è rapidamente comparso nelle collezioni di otto diversi stilisti. Dopodiché è arrivato a poco a poco nei grandi magazzini e alla fine si è infiltrato in qualche tragico angolo casual, dove tu evidentemente l'hai pescato nel cesto delle occasioni (...) e siamo al limite del comico quando penso che tu sia convinta di aver fatto una scelta fuori delle proposte della moda quindi, in effetti, indossi un golfino che è stato selezionato per te dalle persone qui presenti”. Non solo Andy, ma anche il pubblico ascolta il tutto con una buona dose di sbigottimento: “L’avidità è giusta” tuonava Gekko, fornendo agli investitori una supercazzola di prim’ordine che rileggeva la storia dell’umanità come risultato della bramosia. Miranda si spinge verso un tassello ulteriore: persino le nostre scelte su ciò che indossiamo sono, anche quando ci sentiamo anticonformisti, indirizzate in maniera del tutto surrettizia da un nucleo ristretto di persone. Complotto? Certo che sì, ma senza un j’accuse perentorio o uno spirito di condanna del sistema come accade in molti film sulla finanza sregolata. Anche perché Il Diavolo Veste Prada è un concentrato di ironia ben attento a schivare qualsiasi intento di satira: mostrare il sistema moda così come è nella realtà è già divertente e paradossale, anche senza amplificarlo o esasperarlo alla Zoolander: “Sto facendo una nuova dieta, è molto efficace: non mangio niente!" esclama soddisfatta la Emily Charlton di Emily Blunt, "E poi quando sento che sto per svenire butto giù un cubetto di formaggio!"

Inevitabilmente, in tutta la sua proverbiale antipatia, Miranda Priestly ha avuto la simpatia di gran parte del pubblico. Accadde anche a Michael Douglas, al quale molti broker confidano ancora oggi di dovere la loro carriera al fascino di Gordon Gekko: “Ma io ero cattivo!” fa spesso notare loro Douglas. Fatto sta che l’interpretazione di Meryl Streep ha indubbiamente riaperto un vasto tunnel sotterraneo tra cinema e moda pronto a farsi trend topic tra gli addetti ai lavori. C’è tanto materiale, nel film di Frankel, che ha generato un’ondata di prodotti pronti a cavalcare sia l’interesse per la moda e sia le disavventure in ufficio con un capo impossibile: da Come Ammazzare il Capo e Vivere Felici all'ultimo The Boss con Melissa McCarthy fino ai biopic Coco Chanel - L’amore prima del mito e Saint Laurent, ai docufilm Valentino - The Last Emperor e Dior and I, all’ironica celebrazione del consumo ossessivo-compulsivo di I Love Shopping, ispirato alla fortunata serie di romanzi di Sophie Kinsella, passando per le due incursioni cinematografiche di Sex & The City, nelle quali la deriva fashionista della serie tv assume un peso macroscopico. Non è un caso che il reparto costumi de Il Diavolo Veste Prada sia stato in mano a Patricia Field, responsabile proprio del ricchissimo guardaroba della serie con Sarah Jessica Parker. “La mia idea è stata quella di assumerla e poi di andarmene e lasciarla fare” dichiarò Frankel. E Miranda è anche una sorta di Crudelia De Mon in veste executive: quando scende dalla macchina, il dettaglio della scarpa che poggia sul marciapiede ricorda la discesa dall'auto di Glenn Close ne La Carica dei 101 - Questa volta la magia è vera di Stephen Herek. Anche nel live-action Disney, dopotutto, il boss faceva il suo ingresso in ufficio in grande stile. Secondo la costumista, nonostante uno stanziamento iniziale di circa 100.000 dollari, venne speso complessivamente oltre un milione di euro per i vestiti indossati dai protagonisti. Il successo del film portò i Fox Television Studios a progettare una serie tv, originariamente prevista per la stagione 2007-2008 ma mai realizzata. Difficile, oggi, immaginare Miranda con un volto diverso dalla Streep, anche se per il ruolo sul grande schermo furono prese in considerazione Helen Mirren e Kim Basinger. Tre anni dopo il film di Frankel uscì poi il fortunatissimo documentario The September Issue, acclamato al Sundance Film Festival e dedicato all’elaboratissimo numero di settembre di Vogue America: protagonista assoluta è la direttrice Anna Wintour, spesso indicata come fonte ufficiosa di ispirazione per il personaggio di Miranda (tesi che Lauren Weisberger ha sempre negato, nonostante abbia lavorato proprio in Vogue). Nel docufilm, lo stressatissimo team di una glaciale Wintour è alle prese con la pubblicazione che presenta gran parte delle scelte editoriali dell’anno. E nel film con Anne Hathaway, Nigel rassicura il direttore della Elias-Clarke esclamando “Il nostro numero di settembre migliore!”, a rimarcare proprio l’importanza della release settembrina come pietra angolare della moda stagionale. Nello stesso dialogo apprendiamo che Miranda ha il potere di scartare con disinvoltura un servizio fotografico da trecentomila dollari. La signora della moda non bada a spese, ma il suo parco modaiolo sembra incontrare il favore di industriali e creativi. Non a caso, dietro la scrivania di Emily Blunt campeggia un numero di Runway la cui copertina è ricalcata su quella di Vogue di agosto 2004, che vedeva primo piano Riley Keough, Priscilla Presley e Lisa Marie Presley. Difficile poi non notare in The September Issue quanto il set della redazione di Runway richiami quella di Vogue. A oggi, è forse il docufilm che meglio svela i retroscena di un grande circo a tre piste: una creativa, una industriale e una mediatica.

[embed]]

La Wintour partecipò alla première di New York de Il Diavolo Veste Prada, alla quale si presentò indossando proprio un completo dell'iconico brand italiano. La sua opinione sul film fu oggetto di forti speculazioni, finché Wintour non rivelò in un’intervista a Barbara Walters di aver gradito il film dichiarando: “Tutto ciò che rende la moda divertente e che può donarle glamour e intrattenimento è importante per la nostra industria”. La stessa Meryl Streep sostenne che la direttrice di Vogue fu vagamente infastidita dal libro ma non dal film, che inevitabilmente le consegnò una rinnovata popolarità anche tra chi mai aveva sentito parlare di lei. Come spesso accade, gran parte della reputazione di queste persone è gestita dalle agenzie di promozione dell’immagine e dalla stessa stampa. Tuttavia, negli anni è stato quasi impossibile non associare la Wintour a Miranda Priestly, soprattutto in occasione di alcune sue vistose manifestazioni di potere, tra le quali la presunta capacità di far ridurre i giorni di sfilate della settimana della moda milanese. Ironia della sorte, qualche giorno fa al convegno Milano Moda Uomo della Camera Nazionale della Moda Italiana, proprio Patrizio Bertelli di Prada ha dichiarato: “Noi italiani siamo troppo a rimorchio di tutti e non riusciamo a essere impositivi. Bisognerebbe portare le sfilate della donna a metà luglio e quelle dell'uomo a metà giugno. Ma invece ci preoccupiamo di come reagirebbe Anna Wintour”.

Passion or fashion?

Il Diavolo Veste Prada si serve della moda un po’ come Chocolat della cioccolata: l’universo fashion e il cacao sono i due "guilty pleasure" di due piccole epopee di crescita personale, pronte a portare i protagonisti a mettersi in discussione. Durante il film con Juliette Binoche si può essere facilmente colti da un improvviso languore di cacao. E anche nel corso del film con Meryl Streep può accadere di perdersi nel coloratissimo guardaroba del girone dantesco di Runway: un mondo variopinto che non è l’universo delle passerelle, ma lo specchio della loro rappresentazione. Il Diavolo Veste Prada non è un film sulla moda, ma sulla sua rappresentazione mediatica e, soprattutto, sull’influenza che può avere sul consumatore più insospettabile: Andy, del tutto estranea e indifferente alle dinamiche della fashion industry, finisce per esserne risucchiata. Prova ne è che il povero Nigel, intrappolato nel suo lavoro e prigioniero di Runway, le confida "Fammi sapere quando la tua vita va completamente all'aria, vuol dire che è l'ora della promozione".

Roland Barthes ne Il Senso della Moda è molto chiaro: “Quando leggo in una rivista di moda che ‘l’accessorio fa la primavera’, che ‘questo tailleur ha un aspetto giovane e morbido’, o ancora che ‘quest’anno è di moda il blu’ non posso rifiutare a queste proposizioni una struttura semantica: in tutti i casi (…) si tratta di impormi una relazione di equivalenza tra un concetto (la primavera, la giovinezza, la moda di quest’anno) e una forma (l’accessorio, questo tailleur, il blu), tra un significato e un significante”. Nella redazione di Runway, come in quella di Vogue, si concilia proprio la semiotica della moda con la più vigile e scientifica attenzione alle leggi e alle direzioni del mercato ("Floreale? In Primavera? Avanguardia pura!" esclama Miranda durante un briefing). Non è necessario elevare il film di Frankel a piccolo manifesto del fashion power: è sufficiente prendere atto che, a distanza di dieci anni dalla sua uscita, il potere di mettere in relazione un concetto e una forma è ancora molto forte anche dopo un decennio nel quale la comunicazione tra editori, lettori e consumatori si è fatta sempre meno verticale. Se oggi, come accaduto negli ultimi giorni a Milano, si parla ancora della Wintour e di Vogue come delle pietre angolari di un sistema, forse il vecchio apparato della moda ha difeso discretamente le proprie roccaforti anche al netto del proliferare di influencer e fashion blogger.

Anche perché, al momento dell'uscita de Il Diavolo Veste Prada, Facebook è una compagnia che ha registrato da poco il proprio dominio (quello attuale venne registrato nel 2005), l'iPhone non esiste (sarà lanciato nel 2007) e gli internauti social sono ancora amici di Tom su MySpace. A livello di puro entertainment, il film funziona anche per la sua opportuna leggerezza: il ritmo è talmente frizzante che gran parte del pubblico dimentica presto che nel titolo campeggia macroscopicamente uno dei brand di maggior successo dell’industria vestimentaria. Di fatto il marchio Prada, ben felice del superspot a livello globale, ai fini della trama passa del tutto in secondo piano. Se una delle virtù dello storytelling è quella di nascondere l’elefante nella cristalleria allora Frankel fa abbastanza centro, anche perché il suo film è una vera e propria orgia di product placement di marchi luxury, fashion, tech, food e lifestyle: da Apple a San Pellegrino, da Mitel a Starbucks, da Motorola a Bang & Olufsen passando per Smith & Wollensky. Gran parte delle ambientazioni del film fanno un uso ridotto dei set in favore di vere location: il quartier generale e la lobby degli uffici della Elias-Clarke sono l’esterno e l’interno del McGraw Hill Building, al 1221 della Avenue of the Americas (la Sixth Avenue) di Manhattan; la caffetteria dell’ufficio è invece quella della sede newyorkese della Reuters, mentre la redazione nella quale Andy viene assunta dopo l’esperienza in Runway è la sede del The New York Sun. Per quanto una parte importante del film si svolga a Parigi, la troupe soggiornò nella capitale francese per appena 48 ore, girando solo alcune sequenze in esterno.

Meryl Streep non mise mai piede a Parigi durante le riprese, e la famosa scena nella quale scende dalla limousine circondata dai paparazzi fu girata a Central Park West

Meryl Streep non mise mai piede a Parigi durante le riprese, e la famosa scena nella quale scende dalla limousine circondata dai paparazzi fu girata a Central Park West. Anne Hathaway appare invece a Place de La Concorde, nella scena in cui getta il telefonino nella fontana (mentre il dispositivo, in quello che sembra un vero e proprio errore, mostra una chiamata in uscita anziché in entrata). Oltre ai camei di Valentino (che disegnò l'abito nero di Meryl Streep per la scena della serata di gala al museo) e di Gisele Bündchen (che accettò di figurare a patto di non interpretare una modella), appare brevemente anche Lauren Weisberger, autrice del libro, nei panni della tata delle figlie di Miranda. Nel film viene anche citata Christiane Amanpour: proprio l’anno scorso, la grande inviata di guerra è stata criticata per essersi occupata di moda dopo aver coperto il conflitto tra Iran e Iraq, gli scontri in Europa dell’Est e nei Balcani, la crisi umanitaria in Somalia e dopo aver intervistato leader come Ahmadinejad e Mubarak. Chiaramente, ancora oggi, nulla vieta di non amare il film di Frankel. Tuttavia, una delle sue capacità più curiose è stata quella di piacere a un pubblico tendenzialmente trasversale e di essere apprezzato anche da chi è fondamentalmente critico verso la moda non tanto come fenomeno culturale (presente dalla notte dei tempi), quanto come macchina industriale fondata su autoreferenzialità e omologazione. La vera vincitrice del cast resta Emily Blunt, che accanto a una colonna come Meryl Streep, a un astro nascente come Anne Hathaway e a un attore poliedrico come Stanley Tucci riesce a emergere come la vera grande sorpresa del film. Blunt non ha vinto un Oscar come Hathaway ma nel 2018, a distanza di dodici anni dalla sua nevrotica Emily Charlton, la vedremo nei panni della più celebre tata volante di tutti i tempi.

Curiosamente, tra le indiscrezioni che hanno accompagnato le trattative per il ruolo di Mary Poppins Returns di Rob Marshall sono circolati sia l'improbabile nome della Streep che le gettonatissime ipotesi della Hathaway e della Blunt. Hathaway era data leggermente in vantaggio, avendo lavorato con Julie Andrews in Pretty Princess e Principe Azzurro Cercasi. Lo stesso film di Frankel faceva opportunamente attenzione a evitare l’effetto “già visto” riproponendo la Hathaway (preferita a Juliette Lewis e Claire Danes) che da brutto anatroccolo acquistava un nuovo look in un nuovo e inaspettato mondo scintillante. A trattative concluse, l’onere di riprendere uno dei personaggi più iconici della storia del cinema è andato a Emily Blunt. Nel pubblico, attorno al progetto di dare un seguito a Mary Poppins gravitano sentimenti contrastanti tra paura, scetticismo e prudenza. In bocca al lupo, Emily.

Continua a leggere su BadTaste