Speak No Evil: perché vedere l’originale in attesa del remake

La versione americana di Speak No Evil sta per arrivare in sala, e noi vi spieghiamo perché recuperare anche l’originale

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Speak No Evil esce in sala l’11 settembre

Speak No Evil - Non parlare con gli sconosciuti sta per arrivare nelle sale italiane. Non sappiamo ancora come sia il remake Blumhuose dell’omonimo film danese datato 2022, ma il fatto che la sua uscita sia imminente ci ha ricordato una cosa molto importante: dobbiamo a tutti i costi consigliarvi l’originale, che è uno dei migliori film della sua annata ma che è passato molto sotto silenzio (forse in ossequio al titolo), come dimostrato dal fatto che ha incassato molto meno di un milione a fronte di un budget – comunque bassissimo – di due e mezzo. Eppure qualcuno nei posti giusti l’ha notato, se è arrivato alla fine nelle mani di Jason Blum e di James Watkins (The Woman in Black): chissà che l’uscita del remake non possa essere l’occasione per l’originale per avere una seconda vita.

Speak No Evil non è un film per tutti

Speak No Evil è quello che un tempo si sarebbe definito con deferenza un “horror psicologico”, definizione che vuol dire tutto e niente ma che ha comunque una sua certa atmosfera, un’aura che permette di identificare al volo alcuni elementi fondanti dell’opera a cui si riferisce. Da un horror psicologico ci si aspetta che sia lento e atmosferico; opprimente, o magari paranoico, ma raramente esplicito. Che bruci lentamente, che punti tutto sui pensieri e l’immaginazione e poco o nulla sulla violenza grafica. Che magari sia uno di quegli horror che vanno tanto ultimamente nei quali non succede nulla fino a quindici minuti dalla fine, quando comincia a succedere tutto, tutto insieme.

Speak No Evil è… esattamente così, e già questo costituisce una barriera all’ingresso, perché non è sempre facile apprezzare questo modo di rappresentare l’orrore, e questa distribuzione dello stesso all’interno del racconto. Ma la vera barriera del film di Christian Tafdrup è il fatto che parla di rapporti sociali, e nello specifico di un certo modo altoborghese di approcciarli. Parla di gente che non vuole litigare e non vuole alzare la voce per principio; che pur di non creare frizioni e rovinare l’armonia apparente accetta di farsi mettere i piedi in testa. Parla di gente che vorrebbe andarsene ma non sa come dirlo a quel padrone di casa che li vorrebbe lì per un’altra settimana. Parla di un modo di stare al mondo che non è di tutti, e anzi: chi non sa questo genere di problemi potrebbe trovare il film assurdo e incomprensibile. Perché poi Speak No Evil prende questi discorsi e li stira e li allunga e li deforma fino ai limiti della riconoscibilità: chi si identifica con i protagonisti si troverà immerso in un incubo, chi li trova irrimediabilmente scemi probabilmente non riuscirà mai del tutto a entrare nell’atmosfera del film.

Sì ma di cosa parla?

Speak No Evil è la storia di due famiglie, una danese e una olandese. La prima è la più classica delle famiglie all’apparenza perfette ma attraversate da correnti sotterranee di scontenti e insoddisfazioni che non verranno mai a galla perché litigare non è appropriato. La seconda è una coppia piena di vita e priva di inibizioni, con un figlio al seguito che non apre mai bocca. I due nuclei si incontrano in Toscana, passano una piacevole (per quanto a posteriori già sottilmente inquietante) serata insieme e si ripromettono di vedersi. Qualche tempo dopo, gli olandesi invitano i danesi ad andarli a trovare nella loro casa nel bosco.

Questo è Speak No Evil, e aggiungere qualsiasi cosa significherebbe rovinarvi la sorpresa. Non aspettatevi assurdità tipo l’arrivo degli alieni: al contrario, il film di Tafdrup fa l’impossibile per assomigliare a un filmino delle vacanze, ci racconta con piglio quasi documentaristico le giornate passate in compagnia da queste sei persone che pensavano di trovarsi simpatiche, e costruisce, lento e inesorabile, una tensione che esplode solo sul finale in un modo sinceramente insostenibile. È chiaro da subito che c’è qualcosa che non va nel rapporto Danimarca-Olanda, e che le differenze tra le due coppie monteranno fino a creare problemi da affrontare a viso aperto. Ma non è chiaro fino alla fine che direzione voglia prendere lo scontro, e quando Speak No Evil lo esplicita è troppo tardi per tornare indietro: il terzo atto è una valanga, i cui detriti si sono accumulati lungo l’arco dei due precedenti.

Violenza sì, violenza no

C’è una dichiarazione di James Watkins che non potrà che suscitare perplessità in chi ha visto lo Speak No Evil originale: “Il nostro film è molto meno esplicito. È un thriller psicologico con un concetto orrifico incorporato, piuttosto che un film horror puro. È facile ottenere spaventi o shock da azioni orrifiche”. Definire Speak No Evil un film esplicito, un horror puro, è una scelta curiosa: tra tutti gli slow burn di questi ultimi anni è, se non il più slow, sicuramente nella top 3. Ci sono momenti di violenza, e rivelazioni shockanti, ma sono pochi, dosati e distribuiti sempre quando colpiscono più duro.

Ci chiediamo quindi come abbia fatto Watkins ad asciugare ulteriormente il sangue dalla lente, se già l’originale aveva, di “puro” horror, una manciata di minuti sul finale. E non vediamo l’ora di scoprire la risposta a questa domanda: quello di Speak No Evil è uno di quei rari casi in cui un remake hollywoodiano potrebbe avere senso, se affrontato con la giusta attenzione a traslare certi riferimenti socioculturali dall’Europa agli Stati Uniti. Come si dice in questi casi, scopriremo solo vivendo come ha fatto (e se l’ha fatto bene).

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