Space Jam: New Legends fa male come una schiacciata in faccia
Space Jam: New Legends è qualcosa di più di un film sbagliato: è un'operazione che fa mettere in discussione i miti del passato
Guardi Space Jam: New Legends e inizi a mettere in discussione un po’ tutto. Ti chiedi se gli occhi nostalgici di un tempo rendano bello anche ciò che non lo era. Cerchi di capire se dentro alla versione del 1996 ci fosse veramente un film o se fosse solo uno spot ben raccontato. Lo era, in gran parte, ma dentro Space Jam c’era anche inventiva, una buona storia, ed era un qualcosa di mai visto prima. Michael Jordan e Bugs Bunny, folks! Una follia.
Guardi Space Jam: New Legends e non ti senti nemmeno dentro un lungo spot trasmesso durante la finale dei playoff. Peggio: sei in un video aziendale. Ai titoli di coda si prende alla svelta una giacca e una cravatta per accogliere l’amministratore delegato sotto scroscianti applausi. Pronti ad ascoltare le prospettive del semestre, fieri delle proprietà e dei mezzi dell’azienda.
Ha un’IP potentissima!
L’idea di prendere una formula così tremenda sulla carta, come quella del primo Space Jam, e pretendere di ricreare il miracolo era una follia. Lo si sapeva sin dal primo minuto. Però Space Jam: New Legends poteva avere un altro destino. Poteva scegliere la via della discrezione, mascherando un po' il suo primo intento o anche solo provandoci ad essere un film vero.
Perché di film retti solo dai camei e dai riferimenti meta ce ne sono già stati un po’ e qualcuno anche con buoni risultati (come ad esempio Cip & Ciop agenti speciali). Quando però l’intero film è un’esibizione di potenza commerciale dell’intero conglomerato media, bisogna almeno provarci a mascherare le proprie intenzioni. Altrimenti l’impatto è durissimo. Come una schiacciata in faccia allo spettatore.
Per fare questo può venire in aiuto una trama. O per lo meno un'idea su cui reggere tutto.
Invece in Space Jam: New Legends è arrivato Don Cheadle
È più difficile capire di cosa parli Space Jam: New Legends se si racconta la trama nella sua linearità, dall'inizio alla fine. Per sciogliere il mistero bisogna partire invece da Don Cheadle, che interpreta l’algoritmo che controlla i server della Warner Bros. e osserva il campione di basket LeBron James insieme ai figli mentre discute un contratto cinematografico con la dirigenza dello studio. Lui rifiuta perché “quando gli atleti recitano va sempre a finire male” (ah, battuta meta). Il figlio Dominic è interessato al funzionamento del sistema che è cosciente di sé e ha un carattere suscettibile. Siccome si sente elogiato, prende l’iniziativa: imprigiona padre e figlio nel mondo digitale e sfida LeBron a una partita.
Il resto del film perde coerenza, motivazioni, logica, come una bottiglia d’acqua bucata tre volte nel fondo. Tutto secondo i piani, perché le priorità sono evidentemente altre: riempire di strizzate d’occhio così come viene senza disturbarsi a costruire un minimo di coerenza al serververse. Bisogna infatti considerare che siamo in un universo in cui le celebrità sono note e camminano tra noi. L’attore Michael B. Jordan, ad esempio, è conosciuto quando appare viene riconosciuto (è protagonista di una scontata, ma carina gag sul suo nome). Quando però si presenta il cattivo Al G. Rhythm, LeBron James commenta “il computer è nero?”, quando sarebbe stato più logico che dicesse: “quello è Don Cheadle?”.
Da qui in poi il film si muove nella direzione decisa dall’algoritmo. Si seguono pedissequamente le sue istruzioni: prima si personalizzano gli avatar, poi si va a cercare la squadra, poi si gioca la partita e così via… Inutile ribellarsi. Nemmeno il campione conta nulla. A lui è concessa la sotto trama a tema famiglia. Il padre e il figlio insistono nel non capirsi anche a costo di restare imprigionati per sempre nel mondo digitale. Per essere un’operazione di restauro del brand, quello di LeBron James non ci fa una grande figura. È un campione insopportabile, pieno di sé, ossessionato dalla vittoria nel peggiore dei modi. Costringe i figli a seguire le sue orme anche se questi hanno incredibili talenti diversi da quelli atletici. È molto più un villain lui che l’algoritmo.
Hai visto quello lì?
Tagliamo corto: ci si può divertire con Space Jam: New Legends cercando di scovare le easter egg. Sono tantissime sin dall’inizio. Poi, verso la fine, diventano addirittura troppe. Nel pubblico della partita ci sono tutti, ma veramente tutti, i personaggi di cui lo studio può disporre. Non si sa dove guardare, il montaggio velocissimo bombarda di informazioni e le inquadrature sono strapiene di personaggi. Bisogna scegliere se seguire l’azione principale o lasciar perdere e osservare lo sfondo.
Space Jam: New Legends è poco di più che questa cosa qui. Una lunga sigla, più che un film. Uno showreel. Il più delle volte è insignificante, ma talvolta riesce a fare anche male. Moralmente male. I Looney Tunes sono dispersi nella galassia, una volta radunati fanno le loro cose: spaccano e riaggiustano, creano trappole, giocano con i disegni, cadono e rimbalzano. Sono cartoni animati tradizionali. Il film, o meglio l’algoritmo, gli concede un miglioramento: il 3D digitale. Il problema è che lo dice proprio: avete bisogno di un upgrade (come se il 2D fosse banale).
Inutile sottolineare quanto questa idea di superiorità “a prescindere” dell’animazione computerizzata su quella tradizionale sia assurda, ancora di più se ad affermarla è uno studio come la Warner. Bastano pochi minuti ed ecco la dimostrazione dell’esatto contrario, quando appare un Don Cheadle digitalizzato che si piazza direttamente nella top 10 delle creazioni più orribili fatte da un computer al cinema.
Forse per pietà, forse per fare ancora più male, alla fine di Space Jam: New Legends un altro algoritmo, quello di Netflix, mi ha consigliato cosa vedere dopo. Era il Pinocchio di Guillermo Del Toro, per rifarsi gli occhi. Il confronto è impietoso, nell’interpretazione del linguaggio dell’animazione e nella fiducia verso le storie. Guardandoli insieme, uno dopo l’altro, si capisce cosa è prodotto e cosa è film.
Con Space Jam: New Legends la Warner voleva far vedere quanto valgono le proprietà intellettuali. Ha dimostrato invece quanto valgono le idee. E quanto ne abbiamo bisogno.