Soul Man, rivisto oggi

Soul Man è un film sostanzialmente incommentabile, ma noi ci proveremo lo stesso: è un duro lavoro, ma qualcuno deve pur farlo

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Questo articolo fa parte della rubrica Rivisti oggi

Vi avvisiamo subito che questo pezzo potrebbe essere più breve del solito. Intendiamo dire: avete visto la foto con cui abbiamo aperto? Non è particolarmente complicato capire che Soul Man non è una grande idea, anzi. Qui non siamo dalle parti della decostruzione del method acting portata avanti da Robert Downey Jr. in Tropic Thunder; questo è un film nel quale la blackface semplicemente avviene, è un plot point (è il fulcro di tutto, in realtà) e dovrebbe forse, in teoria, insegnare qualcosa, ma nella pratica genera solo ondate di imbarazzo costanti. C’è una morale, alla fine di tutto, che circa più o meno suppergiù prova a giustificare le scelte di sceneggiatura; ma è flebile, scontata, ovvia e già scritta nel film fin dall’inizio. D’accordo che era il 1986, ma pensare che Soul Man abbia avuto un discreto successo commerciale fa una certa impressione.

Soul Man: di cosa parla?

Di un ricco ragazzo bianco che vorrebbe studiare a Harvard ma non può permetterselo, perché, parole sue, “ha un padre stronzo”, il quale è un milionario che però vuole godersi i propri soldi e non è disposto a sacrificare nulla per l’educazione del figlio, il quale viene invitato a trovare metodi alternativi per finanziarsi gli studi. Questi metodi consistono nell’impadronirsi di una borsa di studio riservata a studenti neri, un obiettivo che Mark raggiunge… tingendosi di nero. E non colorandosi la faccia con un pennarello, no: usa delle “pillole abbronzanti” che lo trasformano, be’, in un bianco in blackface per noi che guardiamo da fuori. L’intero cast di Soul Man, però, ci casca.

Sospensione dell’incredulità, d’accordo. Ma se proprio l’idea dev’essere quella di fare un film nel quale un bianco prova in prima persona la black experience e scopre che è orribile, piena di razzismo, pregiudizi, battutacce a mezza voce e stereotipi, forse sarebbe stato meglio sostituirlo direttamente con un attore nero, perché stando così le cose l’effetto genera solo imbarazzo. Impossibile non provare un po’ di compassione per il povero C. Thomas Howell conciato come in Tropic Thunder ma peggio. Ma in fondo il contratto l’ha firmato lui, e nessuno l’ha obbligato ad accettare la parte; per cui anche nel suo caso la compassione dura poco.

Once you go black

Abbiamo provato un drinking game guardando Soul Man: uno shottino ogni volta che qualcuno pronuncia una battuta prevedibile sull’essere neri. Dopo pochi minuti, con un uno-due mortale, il film piazza prima una gag sul basket, poi sulle dimensioni del pene, in una scena che dovrebbe forse risultare umiliante per il protagonista, ma dalla quale comunque il nostro esce ricoperto di complimenti per la sua abilità sessuale. A quel punto, a un passo dalla cirrosi, abbiamo interrotto il giochino – e meno male, perché poco dopo abbiamo dovuto assistere all’ennesima “barzelletta sui neri” raccontata da un tizio il cui unico ruolo nel film è comparire ogni tanto sullo sfondo e raccontare, indovinate un po’?, una barzelletta sui neri (che ovviamente non vengono chiamati “neri”).

La cosa più curiosa è vedere che a questo pasticcio abbiano accettato di partecipare anche attori neri, uno su tutti James Earl Jones nei panni del severo professore privo di senso dell’umorismo. Non c’è veramente nulla di salvabile in Soul Man, e in questo senso fanno un po’ sorridere le parole a riguardo del protagonista, secondo il quale “ho accettato il ruolo perché era una grande sceneggiatura. Molte delle esperienze vissute da questo ragazzo, be’… magari se fosse stato bianco non le avrebbe vissute, ma quando sei nero è tutto molto diverso”. E cosa volete ribattere a una dichiarazione di un tale ingenuo candore? A noi vengono alcune parole, ma non si possono scrivere in questa sede.

C’è qualcosa che si salva in Soul Man?

Detto brutalmente: no, o quasi. Non è solo il problema della blackface, è tutto il film che è una commedia romantica sgangherata e tutta scritta per poter giocare con gli stereotipi più faciloni che vi possano venire in mente. Ci sono personaggi che compaiono e vengono presto dimenticati, altri che vengono riciclati solo per alimentare un’altra inutile gag, ci sono storie d’amore che svaniscono quando serve come se non fossero mai successe e persino una sottotrama di molestie sessuali che avrebbe meritato ben altra cornice per essere discussa.

Il momento peggiore forse non è neanche il finale, ma la conclusione del secondo atto, quando Mark smette di fare finta e rivela la sua vera identità razziale: il fatto che gran parte della gente che ascolta la sua confessione sia disposta a perdonarlo è, uhm, imperdonabile? Persino il suo love interest, che è ovviamente nera, riesce a trovare il modo di farsela passare, perché che commedia romantica sarebbe senza un finale sdolcinato? D’altra parte Rae Dawn Chong, l’attrice che interpreta Sarah, qualche anno fa è tornata a parlare del film e delle controversie sulla blackface e se l’è presa non con Soul Man, ma con Spike Lee: viene da dire che non c’è speranza. Per fortuna con gli anni il film è stato un po’ dimenticato: chiediamo scusa per avervelo ricordato.

PS guardate la locandina del film e fate caso al colore della pelle del protagonista: forse da qualche parte nella catena produttiva qualcuno con un po’ di vergogna c’era.

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