Sopravvissuto – The Martian: dal romanzo di Andy Weir al film di Ridley Scott
Come è cambiato il Mark Watney di Matt Damon dal cartaceo al fotogramma? Lo analizziamo in questo speciale su Sopravvissuto - The Martian
Lou Lumenick del New York Post ha definito Sopravvissuto – The Martian un film di avventura semplice, una missione di salvataggio avvincente che schiva le trappole metafisiche ed emozionali di Interstellar.
In una parola: sì. Il bestseller di Weir e lo script di Drew Goddard sono distanti. L’odissea che lo scrittore statunitense ha creato per l’astronauta Mark Watney è un elaborato incastro di minuzie scientifiche e avventure spaziali che, su carta, non veste alcuna sembianza cinematografica. Al contrario la sceneggiatura predilige le parti più rischiose, come quando Matt Damon sperimenta i propri limiti avventurandosi nel cratere Schiapparelli o quando nell’incipit si automedica una brutta ferita.
E’ proprio durante la fase 1 de “il piccolo botanico gioca a fare il chimico” che Watney provoca un’esplosione a dir poco letale. Nel romanzo Watney sottolinea con una certa ironia come sia stato prossimo alla morte a causa dell’ossigeno. Morire su Marte per eccessività di O2 è in effetti alquanto bizzarro: la prima volta che l’astronauta ha rischiato di soffocare è stato durante la tempesta di sabbia; i sensori della tuta avevano riconosciuto una fuga d’aria e se Mark non si fosse risvegliato dallo shock probabilmente sarebbe deceduto per una elevata quantità di ossigeno puro. Differente invece il caso dell’elettrolisi quando il nostro pirata marziano non aveva considerato i differenti tempi di combustione di idrogeno e ossigeno.
La sequenza della generazione acquea nella pellicola è breve e incalzante: Scott e Goddard ci hanno mostrato da poco che abbiamo dinanzi un uomo determinato, un po’ sbruffone e che non si vuole arrendere. E’ da questo momento che si sommano successi e disfatte a suon di disco music, in una successione di montaggi veloci di Hip Hip Hurra e scoppi spaziali che, per esigenze filmiche, non possono rallentare per spiegarci cosa è andato storto.
L’operazione di scrematura dello sceneggiatore ha quindi ripulito la vicenda della sua parte più espositiva e tecnica mantenendo intatto lo scheletro del romanzo: lo schema “progettazione, modifiche al piano ed esecuzione” rimane inalterato ma spesso chi non ne beneficia è l’ironia delle circostanze.
Il Watney di Scott e Goddard ride delle scorte musicali del comandante Lewis. E’ un uomo intraprendente dal linguaggio scurrile che è restituito, nella sua forma più confidenziale, da videoblog simili a quelli di Avatar. Il Watney del romanzo è il Matt Damon del film ma che interagisce col territorio circostante. Marte è la natura amica e nemica. Marte è madre terra, è una nuova dimora e al contempo è leopordiana, ostile, fredda e incolta. Mark non è un pessimista e lotta quotidianamente nella posizione dell’ospite indesiderato. La negatività è assunta dal paesaggio: enormi distese di sabbia e nulla, pericolose e letali anche per il più positivo dei viandanti.
“Ma però, per fortuna, stiamo arrivando sulla Luna”
O per meglio dire. Stiamo arrivando su Marte.
Il sottoscritto si è divertito a citare Mondo in Mi 7a di Adriano Celentano. Non a caso ovviamente. La canzone del molleggiato parla di un mondo triste, rassegnato, dove la società ha fallito: l’ultimo barlume di speranza è rappresentato dallo sbarco sulla Luna.
In The Martian il catalizzatore dell’unione fraterna dei popoli è Mark Watney, creduto morto e celebrato con tanto di funerale e pochi mesi dopo unico riconosciuto, con una certa plateità dei media, quale colonizzatore del pianeta marziano. Grazie a Watney Cina e Stati Uniti collaborano ad un progetto spaziale ( al termine del film li rivedremo assieme per la missione Ares 4); grazie a lui i telespettatori di tutto il mondo si sono immedesimati in un moderno Robinson Crusoe.
Al termine del romanzo il botanico abbandona calcolatrice e appunti per una riflessione più sentimentale e meno matematica. Finalmente lascia quell’arido pianeta. E’ un momento di gioia e commozione che contraddice chi non crede nella solidarietà, nell’aiuto reciproco fra esseri umani. Nel giorno più bello della sua vita Watney sminuisce quel gruppo apatico che l’avrebbe abbandonato nello spazio.
Ridley Scott conclude il film invece sceneggiando la consegna della torcia: Watney è ora un insegnante. Con un’aura da prima donna, di chi è conscio della propria esclusività, gli ultimi fotogrammi ricordano tanto l’epilogo de The Wolf of Wall Street. Il comandante Lewis è tornata alla sua vita, Ramirez è invece nuovamente in missione con Ares4. Il finale cinematografico è meno egoistico: il libro ci lascia poco dopo che il team di astronauti si è riunito, la pellicola invece evidenzia quanto l’importanza del singolo evento, della sventura di Watney, sia servita per accelerare il progresso della scoperta aereospaziale. Il singolo è meno importante dell’organizzazione. E Scott lo sa bene.