Snowpiercer era un treno in corsa verso gli Oscar
Snowpiercer non è solo un capolavoro post-apocalittico, ma anche il biglietto da visita presentato da Bong Joon-hoo all’Academy
Ve lo ricordate il 2013? Si poteva ancora uscire di casa senza paura di prendersi una malattia orrenda o di venire fermati senza autocertificazione a portata di mano. Ci sono ovviamente altri motivi per ricordarsi il 2013: Bong Joon-ho, per esempio, il primo sudcoreano a vincere due Oscar contemporaneamente per Miglior regia e Miglior film, se lo ricorda perché è l’anno in cui arrivò a Hollywood e gettò le basi per quella che sette anni dopo sarebbe stata la sua più grande vittoria all’estero e l’inizio di una nuova fase della sua carriera, quella da Autore Riconosciuto in America, quella nella quale viene interpellato dai media statunitensi con domande tipo “quali sono i tuoi film preferiti?”, solitamente riservate ai darling domestici. È, in altre parole, l’anno di Snowpiercer, la post-apocalisse glaciale secondo Bong, un film di rivoluzioni e giustizia proletaria, e una delle migliori opere di fantascienza degli ultimi tempi.
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Kim non ci riuscì granché, e rimase un po’ schiacciato dal contesto e costretto a fare il regista di servizio; neanche a Park andò benissimo, perché in Stoker le già citate due anime coesistono sì, ma a fatica, e sgomitano per attirare l’attenzione, e il risultato è un film senza una vera identità. Bong è quello a cui andò meglio, un po’ perché l’idea di trasporre Le Transperceneige di Jacques Lob e Jean-Marc Rochette era sua e fu lui a decidere di esportare la produzione in Occidente e di coinvolgere attori anglofoni, un po’ perché si trovò a dover adattare un’opera occidentale, e quindi di base più comprensibile al pubblico americano – opera, peraltro, che lavora a partire da immagini e allegorie semplicissime ai confini del didascalico, non per questo meno efficaci ma sicuramente più facili da trasportare dalla carta allo schermo.
Il mondo è finito: le scie chimiche usate per raffreddare un’atmosfera surriscaldata dall’azione dell’uomo hanno fatto casino e raffreddato troppo, gettando il pianeta in una nuova devastante era glaciale
Tutto quello che rimane dell’umanità sta su un treno, che corre all’infinito in un enorme cerchio intorno al mondo e non si ferma mai
Il treno si chiama “Metafora della società”: in testa dove c’è la locomotiva che controlla tutto quanto ci sono le persone ricche, in coda ci sono le persone povere
Le persone ricche non vogliono che le persone povere abbiano la possibilità di diventare ricche e trasferirsi nei loro vagoni: abbiamo il nostro posto che ci viene assegnato alla nascita, e lì dobbiamo restare per tutta la vita
Questa cosa non piace a Curtis, che vorrebbe andare in testa al treno a discutere con il capo di tutta la baracca per provare a cambiare le cose
Curtis è povero, quindi non può andare in testa al treno
Curtis fa la rivoluzione
Questo intendevamo dicendo che Snowpiercer è un film semplicissimo e che non fa nulla per mascherare le sue posizioni ideologiche, e anzi mette tutta l’azione al servizio del messaggio: tutto quello che si vede, anche le cose più assurde e orrende, dal tizio ribelle a cui per punizione viene messo il braccio fuori dal finestrino per sette minuti così che diventi un pezzo di ghiaccio alla rappresaglia anti-rivoluzione che porta a un eccidio, serve per raccontarci qualcosa sulle due anime del treno, e per dimostrare non solo che chi ha il potere fa di tutto per mantenerlo, ma anche che non esistono persone buone o cattive, solo persone che si trovano in condizione di superiorità o di inferiorità e agiscono di conseguenza. A tratti la voglia di allegoria di Bong è tanta che gli sfugge di mano, e Snowpiercer diventa una vera e propria didascalia, un commento all’umanità tutta e ai suoi pregi e difetti, ma è difficile capire quanto di questo eccesso di esposizione sia effettivamente colpa del regista e quanto di una sceneggiatura che è stata riscritta una volta che ha attraversato l’oceano, forse, immaginiamo noi, per renderla più chiara e commestibile anche al pubblico americano.
Questo non significa che Bong non abbia modo di esprimersi, anzi. Il fatto di dover girare sequenze di massa tra i vagoni di un treno, che sono luoghi lunghi, stretti e claustrofobici, lo esalta: il rischio era che Snowpiercer diventasse una sequenza di scene ambientate in corridoi sempre diversi, ma Bong si diverte a inventare modi sempre diversi per muoversi tra la massa brulicante di corpi che riempiono i vagoni. È un virtuoso, e Parasite l’ha dimostrato definitivamente anche a chi non aveva avuto la possibilità di scoprire i suoi capolavori precedenti (Memories of Murder, The Host e Mother se non avete tempo e ne dovete scegliere solo tre da vedere; prego, dovere), ma già Snowpiercer aveva dimostrato a un bel po’ di gente al di fuori della Corea del Sud quanto Bong fosse bravo, creativo e capace di far sembrare naturali i suoi improvvisi scarti di tono (e a volte anche di genere).
Snowpiercer è un po’ il meglio dei due mondi, insomma, o quantomeno l’unione perfetta tra cinema americano e sudcoreano che quell’anno non riuscì né a Stoker né a The Last Stand, e che lo stesso Bong non riuscì del tutto a replicare nel suo film successivo (Okja, fin troppo sbilanciato verso il lato occidentale dell’equazione).
Qui, invece, ci ha regalato sequenze come questa:
https://www.youtube.com/watch?v=Z3doAuAxPhk
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