Smetto quando voglio: quando Sydney Sibilia raccontava una generazione schiacciata

Smetto Quando Voglio alzava la testa di una generazione schiacciata. E oggi, la saga di Sydney Sibilia manca tantissimo al cinema italiano

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In occasione dell'arrivo su Netflix de L'incredibile storia dell'isola delle rose, diamo una nuovo sguardo, a distanza di tempo, alla saga di Smetto quando voglio.

A Sydney Sibilia andrebbe affidata una sceneggiatura di Zerocalcare. Non per una questione anagrafica (Sibilia è classe ’81, mentre Michele Rech è dell’83), non per una particolare affinità tono, ma per quell’epica dei piccoli che entrambi amano raccontare. 

Con Smetto Quando Voglio Sibilia esordiva con il suo primo lungometraggio e folgorava tutti. Era il 2014 e stava iniziando una rivoluzione giovane del cinema italiano, poi perfezionata da Lo chiamavano Jeeg Robot (Mainetti, 2015) e Veloce come il vento (Rovere, 2016). Tre registi giovani e pacatamente arrabbiati che prendevano per le corna il cinema italiano, ma soprattutto il suo pubblico, e lo scuotevano dal tepore. 

Tre film, che raccontavano tre Italie, attraverso tre eroi: Matteo Rovere inquadrava quello sportivo, della provincia, con una bellezza del particolare e la tendenza all’autodistruzione. Gabriele Mainetti quello inconsapevole, che non sa come usare il proprio talento e forse non lo vuole nemmeno. Sydney Sibilia radunava una banda di ricercatori consapevoli: che sanno di avere un’intelligenza sopra la norma, in una nazione così ingessata da soffocare ogni ambizione. Una generazione schiacciata.

I personaggi di Smetto Quando Voglio sono moralmente affini a quelli di Zerocalcare. Sono imprigionati in una Roma che è un limbo di inerzia. Il loro mondo è fatto di confini invalicabili sia fisici (non riusciranno mai a sfuggire dalla loro natura) che morali. Affrontano la vita mantenendo con coerenza un rigido set di regole autoimposte. Servono ad affrontare la realtà, ma a conti fatti creano una gabbia di conforto che trascina fondi personaggi. Smetto quando voglio ci racconta una generazione di 30-40enni che venne bene inquadrata anche da Mattia Torre in Figli. Troppo vecchi per essere giovani, troppo giovani per essere vecchi. Frustrati anche nell'ambizione di una vita normale, abituati a standard impossibili da raggiungere, destinati a una vita di precariato in cui l'umiltà (che non possiedono) è il requisito ultimo per non creare problemi.

Sydney Sibilia si ribella. Arriva al cinema proprio con quella voglia di rivalsa che hanno i suoi ricercatori. Prende due generi molto amati dal pubblico dello stivale: la commedia e il crime. Li fonde insieme e crea una sorta di Breaking Bad lisergico. L'umorismo di Smetto quando voglio graffia grazie alla capacità di saper comunicare attraverso le immagini. Il colloquio ai cantieri con l'antropologo che finge di non essere laureato è un'immagine potentissima. Impossibile non ridere di fronte ai latinisti che litigano con  una lingua morta mentre lavorano come benzinai. Come le migliori satire, il film porta all'estremo idiosincrasie e contraddizioni già ben note e ben presenti nella società italiana. Ma Sydney Sibilia, con una grande finezza e intelligenza cinematografica, si guarda bene dal fare la morale, un tanto al chilo, a figure come dirigenti e politici già prese di mira da un certo cinema populista. 

Proprio come nei fumetti di Zerocalcare i personaggi si guardano all'interno anche se devono combattere contro l'esterno. Non hanno rabbia verso qualcuno, se non contro se stessi. Si sentono inadeguati, sono poveri e non riconosciuti socialmente, ma condividono un senso di colpa. È come se, nonostante la loro misera condizione, sentissero di aver rubato del benessere o delle posizioni lavorative che non gli spettano. Questo li immobilizza mentre il mondo corre più veloce di loro.

Smetto quando voglio raccontare un'Italia che ne contiene tante altre. L'Italia di una generazione che sta ancora cercando il proprio posto nel mondo quando i genitori, alla loro stessa età, erano già affermati con famiglia e lavoro stabile. Racconta una nazione dove alle leggi dello Stato si sovrappongono le regole nepotiste. Dove le raccomandazioni sono un prodotto di compravendita.

Racconta anche un'Italia cinematografica che reagisce, vuole sconvolgere (i colori al neon che riproducono uno stato allucinato della visione, sono quanto di più distante dalla fiction televisiva). Lontano dai buoni sentimenti di Don Matteo e della TV generalista, Smetto quando voglio è un'operazione totalmente cinematografica. Basti pensare che i seguiti (Masterclass e Ad Honorem) sono stati girati contemporaneamente come Peter Jackson fece con il Signore degli anelli. La popolarità della saga calò leggermente con il secondo e il terzo film, ma aumento la qualità della messa in scena visiva. Esplosioni, rapine al treno, sembrava di assistere a una grande storia americana. La commedia ha lasciato il posto all’azione.

Man mano che la banda di ricercatori si liberava dal peso della propria condizione “schiacciata”, così anche Sydney Sibilia iniziava a fare il cinema che più ha nelle vene. Masterclass e Ad honorem, sebbene meno riusciti, sono la rara dimostrazione di cosa può fare un regista semiesordiente messo in condizione di usare in libertà il mezzo cinematografico.

Rivista oggi la trilogia lascia un po’di malinconia. La rivoluzione giovane ha molto rallentato la sua corsa, e l’Italia raccontata in queste storie è tornata a faticare per avere una degna rappresentazione. Eppure il segno tracciato rimane. Dietro alle allucinazioni, alla Sapienza di Roma ripresa come il Lincol Memoriam, a una Capitale liberata dal suo fascino “esotico” e ripresa come una metropoli americana, resta potente una promessa, ben visibile tra le righe del film. Là dove non c’è spazio per il successo, c’è ancora qualcuno disposto a farsi spazio. Là dove il gioco è costruito per perdere, c’è ancora qualcuno che ha il coraggio di ribaltare il tavolo di gioco. E una volta fatto non si può tornare indietro, non si può smettere quando si vuole. 

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