Smetto quando voglio: il (f)hack the system di Sydney Sibilia 

La trilogia di Smetto quando voglio riassume bene la filosofia di Sydney Sibilia: mandare a quel paese il sistema, cambiandolo da dentro

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Smetto quando voglio arrivò in sala come un’anomalia. I colori erano troppo accesi. L’uso dei droni nella sequenza iniziale (era il 2014) era una soluzione economica eppure così efficace che sembrava pensabile solo oltreoceano. E poi c’era ritmo, musica, un cast che attirava, e soprattutto battute che facevano ridere! Che cosa stava succedendo? A capo di questa stranezza c’era un nome: Sydney Sibilia. Un po’ come con Star Lord, la reazione italiana fu: “chi?”. 

Un nome allitterante da supereroe d’oltreoceano che osava girare una commedia all’italiana a sfondo sociale (il mondo del precariato) con questo piglio, citando Breaking Bad e il grande cinema di genere, facendo veramente ridere. Il tutto con una sicurezza che era quasi una provocazione per l’industria nostrana. Un manifesto: le cose si possono fare in modo diverso, il sistema non è un monolite. Si può lavorare all’interno e potenziarlo, metterlo sotto steroidi e finalmente fare un cinema nuovo, promettente, che provi altri linguaggi. F(hack) the system, insomma. 

Il "Fuck" di Smetto Quando Voglio

Ci sono dei ricercatori universitari demotivati. Sono menti brillanti e inascoltate. Gli stipendi da fame li costringono a una giovinezza perenne. Nessuna famiglia, nessuno scatto di carriera. Solo un eterno precariato e secondi lavori. La laurea, si convincono, è un errore di gioventù che non hanno intenzione di ripetere.

Uno di loro, Pietro Zinni, tenta una soluzione disperata per far fronte alla perdita dell’assegno di ricerca. Vuole creare una nuova droga che sia totalmente legale perché non ancora catalogata come stupefacente dal Ministero della Salute. Compone la squadra per attuare il piano. Coinvolge amici e colleghi: due latinisti benzinai, un chimico lavapiatti, un antropologo, un archeologo e un economista. Lanciano un business che gli porta denaro e, ovviamente, molti guai.

Chi l’avrebbe detto che una trama che nasce dalla rabbia e dalla frustrazione italiana poteva anche far ridere così tanto? I soggetti di Sydney Sibilia sembrano persone normali, ma non lo sono. Assomigliano semmai a Peter Parker. Sfigati, timidi e impacciati. Hanno però un superpotere: lui l’intelligenza e la forza proporzionale a un ragno; loro l’intelligenza e lo sconforto. 

La sceneggiatura, scritta a quattro mani con Valerio Attanasio, è straordinaria proprio per questa intuizione: far scaturire le motivazioni dei personaggi dalla voglia di rivalsa Italiana, che è un qualcosa di ben diverso dall’american dream. Il sogno italiano è infatti una promessa non mantenuta: “studia, applicati, segui le regole e farai grandi cose”. Arrivati nell’età in cui si è pronti a realizzarsi, i ricercatori si ritrovano ancora da capo a studiare, ad applicarsi, a seguire le regole per arrivare a fine mese.

Il cinema di Sydney Sibilia nasce dalla voglia di cambiare

Ne L'incredibile storia dell'Isola delle Rose Sibilia racconta di un ingegnere che diventa nemico dello stato italiano perché ha costruito una piattaforma a largo della riviera romagnola e l’ha dichiarata nazione indipendente. Quest’isola non serve a granché. È uno spazio dove divertirsi, trascorrere le estati e fare soldi. Giorgio Rosa partecipa a un gioco rischiosissimo che non vale la candela. Eppure nel cinema di Sibilia i personaggi non ci stanno a questa scala di valori. L’idea di cosa sia accettabile per vivere bene imposta dalla società non gli basta. Osservano allora il funzionamento del meccanismo, quello che porta dalla giovinezza alla vecchiaia in una routine di lavoro e convenzioni. Trovano una frattura, un vulnus, e si infilano all’interno. 

Una filosofia dei cavilli legali che si esprime anche in Mixed by Erry. Questa volta l’oggetto è la riproduzione pirata della musica. Un’altra storia vera, come l’Isola delle Rose. Gente appassionata di musica, di tecnologia, e un po’ annoiata che fa soldi inventando qualcosa che non esisteva prima. Sono personaggi che stanno un passo avanti nel loro mondo, quando le istituzioni li raggiungeranno saranno guai.

In questi personaggi c’è Sibilia stesso: un regista che è come i ricercatori di Smetto quando voglio, sempre alla ricerca di una contaminazione. Lavora con storie italiane, nel cinema italiano, ma la sensibilità arriva da altrove: da un mondo (culturale) globale che non può più permettersi di guardare solo al proprio interno. Bisogna lavorare con la commedia? Va bene, ma lo faccio a modo mio. Il successo richiede un seguito? Va bene, ma lo faccio come lo fanno i più coraggiosi degli americani. Ne faccio due.

Hack the System

Dalla rabbia al controllo. I due seguiti di Smetto quando voglio (Masterclass e Ad Honorem) sono stati girati contemporaneamente con la stessa leggerezza di stesso spirito che anima la banda di ricercatori. “Se vogliamo fare gli scemi, allora facciamo gli scemi bene” dichiarò il regista. E poi chiamò i seguiti Reloaded e Revolution. Come Matrix. All’americana insomma, per poi svelare il vero titolo nei titoli di coda andando a prendere una moda, quella dei cinecomic, verso cui era più facile opporsi con aria di superiorità. Invece qui la si imita con affetto.

Invece che dire “non siamo come…” Sibilia si è vantato di essere “proprio come” il cinema grosso di genere, i registi ambiziosi, la commedia che si struttura in franchise (Una notte da leoni). Il sistema italiano, il modo in cui tutti pensiamo, critichiamo, e creiamo il cinema nostrano era stato hackerato! 

I seguiti di Smetto quando voglio sono usciti un po’ meno bene del primo. Il secondo è un film di rapine, con una sequenza pazzesca con un treno, ma molto più serio e meno scorrevole. Il terzo è un epico finale di tensione e di trame che si risolvono con grande enfasi narrativa però con un senso di già visto, di ripetizione di una storia ormai esaurita. Meno belli e non importa. 

L’obiettivo era solo in parte superare il primo, era molto più importante far esistere dei film così. Dimostrare che si può essere ambiziosi, con una visione, e divertirsi da matti nel fare questo tipo di cinema. Era una rivoluzione giovane e pop che Sibilia non ha fatto da solo (tra i molti vanno citati Matteo Rovere e Gabriele Mainetti). Oggi l’impressione è che tutto questo si sia un po’ spento; che sia rientrato nei canoni di un sistema che è in piccola parte cambiato, ma che al contempo ha inglobato questa ondata fermandola così nella sua espansione. 

Un segno è rimasto. Perché quello che è stato non può smettere di essere stato. Non si può, in altri termini, “smettere quando si vuole” una volta che sugli schermi è arrivata una creatura così diversa da tutto come la trilogia. L’invito per i nuovi autori risuona ancora chiaro. Si deve continuare ad andare avanti nella ricerca di un modo per cambiare il sistema dall’interno o per ritagliarsi un proprio spazio di libertà, per ritrovare l’orgoglio delle proprie idee matte. Per Sibilia gli autori devono essere ribelli. Proprio come Erry, come l’ingegnere Giorgio Rosa, come la banda di ricercatori.

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