Silent Hill sta invecchiando, ed è un peccato
Silent Hill di Christophe Gans è un ottimo horror e una delle migliori trasposizioni di un videogioco di sempre, ma avrebbe bisogno di un aggiornamento
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Silent Hill e Pulp Fiction
Christophe Gans è un grande appassionato di mostri, orrori cosmici e altre amenità tentacolari, come dimostra il fatto che il suo debutto da regista, dopo una vita passata a fare il critico, è uno degli episodi dell’horror antologico Necronomicon. Vi ricordate Il patto dei lupi, un film che faceva incontrare senza vergogna alcuna horror, arti marziali, fantasy e dramma in costume e che accese per la prima volta i riflettori su Gans? Il successo di quel film lo convinse a provare a farsi dare i soldi per portare al cinema Silent Hill, un progetto inseguito per cinque anni (a sentire lui) e alla fine realizzato grazie a un’estenuante opera di convincimento praticata su Konami.
Silent Hill e Silent Hill
Non è un’esagerazione: i racconti dal set parlano di un film che è stato realizzato con i videogiochi costantemente in mente, e pure sotto gli occhi. Uno dei legami più forti tra i due è la presenza di Akira Yamaoka, compositore giapponese e autore tra l’altro di tutte le musiche di Silent Hill (oltre che collaboratore abituale della Grasshopper Manufacture di Suda51): in questa intervista dell’epoca Yamaoka racconta dei frequenti viaggi sul set per lavorare a stretto contatto con Gans al sound design del film, e di come il regista avesse sempre sotto gli occhi uno schermo da 40’’ con attaccata una PlayStation 2 che riproduceva il primo Silent Hill (le meraviglie della retrocompatibilità Sony...). «Non volevo che la musica dei giochi diventasse quella di un film, semmai volevo che il film assomigliasse di più ai videogiochi» si legge nell’intervista, tanto è vero che la quasi totalità della colonna sonora del film – con l’eccezione di Ring of Fire di Johnny Cash – è composta di pezzi presi dalle OST dei primi quattro Silent Hill.
Ovviamente, come accennavamo sopra, le differenze con la fonte videoludica ci sono, a partire dalla scelta dei protagonisti: non più un padre in cerca della figlia adottiva che viene inspiegabilmente attirata dalla misteriosa città di Silent Hill, ma una madre in cerca della figlia adottiva che viene inspiegabilmente et cetera, e un padre in cerca di entrambe – quest’ultimo aggiunto su pressioni della produzione che non voleva un cast unicamente femminile. Le scelte di Gans funzionano ancora oggi: Radha Mitchell veniva da Finding Neverland e Melinda e Melinda, e al tempo sembrava ancora che potesse diventare una star di livello mondiale, mentre Sean Bean volava ancora sulle ali dell’entusiasmo del Signore degli anelli e con gli anni ha solo guadagnato street cred, e la sua è una faccia che fa sempre piacere vedere. Deborah Kara Unger è una perfetta Dahlia Gillespie, mentre per l’angolo delle curiosità segnaliamo che Jodelle Ferland/Alessa finirà nel giro di pochi anni prima torturata dai vampiri in Twilight, poi dalla sua stessa famiglia (e rianimata sotto forma di zombie) in Quella casa nel bosco.
Dannata CGI
Più che per via del cast più o meno perfetto o delle musiche indubbiamente perfette, Silent Hill funziona perché l’amore di Gans per il materiale originale trasuda da ogni inquadratura. C’è un’enorme quantità di inquadrature strambe e oblique prese pari pari dal primo Silent Hill, e gli stacchi di montaggio emulano spesso quelli assurdi e disorientanti dei videogiochi. Le creature mostruose che popolano la città di Silent Hill sono ricreate con tanto amore, e il gusto gore-barocco con cui sono decorati certi set non ha fatto tanta scuola nel genere quanto avrebbe meritato. C’è la giusta quantità di nebbia, e c’è quella strisciante sensazione (che filtra anche nella sceneggiatura) di confusione che nasce quando ci si trova di fronte a qualcosa – una città posseduta, in questo senso – che non ha del tutto senso, e della quale bisogna accettare le regole senza farsi troppe domande se si vuole sopravvivere. Per gran parte del secondo atto, Silent Hill è una sequenza di scene in cui Radha Mitchell e Sean Bean vanno dal punto A al punto B o scappano dal punto B per tornare al punto A, senza troppe spiegazioni sul perché abbiano deciso di andare proprio in quella direzione: altrove sarebbe sciatteria, qui riflette talmente bene l’esperienza di giocare a Silent Hill 1 e 2 che funziona pur nella sua estrema linearità.
Quello che non funziona più, purtroppo, è la patina di CGI che ricopre gran parte del film, da certe creature create da zero ad altre che sono un mix di effetti pratici e digitali, per finire all’oscurità che abbraccia ogni scena e che è il risultato di un lavoro di postproduzione su scene originariamente molto più luminose (qui trovate un making of del film, se volete approfondire). Le scelte di design funzionano ancora, quello che non funziona più è la CGI in sé, che è... be’, CGI di 15 anni fa, con texture di 15 anni fa, riflessi e particelle di 15 anni fa, gestione della luce di 15 anni fa... Il fatto che il film sia parecchio buio (anche troppo, in un paio di sequenze un po’ confuse) aiuta a soffocare in parte il problema, ma basta un mezzo raggio di luce per rivelare quanto male siano invecchiate certe invenzioni visive (una su tutte, il gran finale con, per evitare spoiler, il filo spinato). È un peccato, ma non un dramma, visto che in Silent Hill rimangono comunque scene come questa, che da sole bastano a fare un film: