Si può non amare Killers of the Flower Moon? | Bad Movie

C'è un film in sala che sta scatenando una sorta di guerra di religione, ed è Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese

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Spoiler Alert

Il Bad Movie della settimana è Killers of the Flower Moon, uscito al cinema il 19 ottobre.

Premessa

C'è un film in sala che sta scatenando una sorta di guerra di religione, ancora più ridicola oggi di ieri in relazione alle vere guerre di religione che appestano il nostro presente storico. Dentro la nicchia del nostro specifico filmico, Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese sta rappresentando quasi uno scontro di civiltà. Chi lo considera un capolavoro anni luce avanti altre opere delle contemporaneità, chi solo un brutto film da parte di un grande regista. Chi addirittura sostiene che chi non lo ama, o peggio ancora “chi non lo capisce”, non può poi parlare di cinema o, idiozia sesquipedale degna di “Marvel non è cinema”, non può fare critica cinematografica. Quasi commovente, ora che il cinema ha perso la centralità di un tempo dentro la nostra società occidentale, che tornino certi toni iperbolici. Oppure oggi bisogna volutamente alzare il volume della radio per attirare l'attenzione di qualcuno? Il film è passato in anteprima mondiale al Festival di Cannes 2023 il giorno 20 maggio. Ha ricevuto nove minuti di applausi, attualmente ha il 93% su Rotten Tomatoes, 89/100 su Metacritic e in Italia in dieci giorni ha già incassato 3.267.099 nonostante i 206 minuti di lunghezza. Si parla già di titolo forte agli Oscar 2024 dove Lily Gladstone pare in pole position come Miglior Attrice Protagonista. Visto l'alto gradimento fin dai tempi di Cannes, davvero non si capiscono astio e nervosismo, da parte dei “lovers” di Killers of the Flower Moon, nei confronti dei pochi, per non dire pochissimi, “haters” del film. Come chi scrive.

Contraddizione

È quella che individua Cybill Shepherd, nei panni dell'attivista politica Betsy, in Robert De Niro, che incarna Travis Bickle, nel capolavoro di Martin Scorsese Taxi Driver (1976). Noi la ravvisiamo già nei primi minuti di Killers of the Flower Moon, ventiseiesimo film del regista di Taxi Driver, presentato Fuori Concorso al Festival di Cannes 2023, ora in sala e in futuro disponibile in streaming su Apple Tv+. Vediamo i vecchi saggi della tribù di nativi Osage celebrare una funziona religiosa in cui già prevedono la fine della loro cultura. Non esisteranno più molto presto, non insegneranno più ai loro giovani che invece verranno svezzati dai colonizzatori “bianchi”. Dopo tutta questa mestizia e de profundis di una comunità già in depressione acuta e al funerale di sé stessa, vediamo improvvisamente ballare giulivi una serie di membri Osage sotto cascate di petrolio appena eruttato dalle Great Plains nordamericane, specificamente nell'Oklahoma. È come se ciò che abbiamo appena visto con la cerimonia funebre non abbia più alcun valore e significato due secondi dopo attraverso il montaggio contraddittorio di Thelma Schoonmaker. È l'inizio del film. I nativi di Osage County hanno trovato l'oro nero. Delle iene verranno da tutte le parti per sgraffignare tutte quelle ricchezze. Loro (i nativi) sono morituri e poi incomprensibilmente ballerini in slow motion sotto scure cascate. Poi di nuovo tristissimi e pronti a farsi uccidere come niente fosse. Senza che ci sia mai un momento di approfondimento di questi umori alterni all'interno della loro collettività. Se non sono già pericolose contraddizioni cinematografiche queste, non sappiamo cos'altro, a livello di struttura, possa penalizzare l'identità ideologica di un film su uno sterminio dove gli sterminati quasi lo accettano come niente fosse. Senza che il regista sia minimamente interessato a incunearsi in questa dolorosa incoerenza. Diciamo che Betsy è molto più curiosa di capire la contraddizione di Travis. Almeno fino alla scena al cinema porno.

Scemo & più scemo

Dopo un cinegiornale in cui i nativi di Osage si atteggiano come i “bianchi” tra macchine, vestiti e status symbol, vediamo arrivare tra loro Ernest Burkhart, interpretato da DiCaprio. Occhi gonfi, denti marci, capello sudicio con riga in mezzo, borse devastanti, pallore malaticcio, sguardo ebete e scucchia imperiosa. Per uno sketch da tre minuti del Saturday Night Live può andare bene. Per un film drammatico, con intenti teoricamente politici, di 206 minuti questa macchietta deambulante risulta insopportabile e fastidiosa. Come il prodotto di uno studente di cinema inesperto che vuole sottolineare ogni secondo le sue intenzioni (cioè: Ernest fa schifo) perché ha paura che non passi il messaggio. Sarà il look e l'attitudine ai limiti del demenziale che DiCaprio sfoggerà per tutto il film. La sua interazione con DeNiro ricorda il rapporto tra Jim Carrey e Jeff Daniels in Scemo & più scemo (1994) dei Fratelli Farrelly. Quella di DiCaprio è una prova di monotona insistenza sul quoziente intellettivo basso e lordume del suo personaggio (ironia basica: al lercio Ernest piacciono le donne che si lavano). Ma attenzione: Ernest, nell'ottica scorsesiana, è più scemo che immorale, si può dire. E già questa è una bella giustificazione del regista nei confronti del suo protagonista. Ernest è il nipote tonto, ex cuoco nella Grande Guerra, del politico locale William Hale (Robert De Niro) anche lui con smorfia onnipresente per 206 minuti. “Puoi chiamarmi Zio oppure Re” dirà Hale a Burkhart all'inizio del film, ambientato nel 1919. E già hai capito tutto. Seguirà complicità tra i due lunga quasi quattro ore tra truffe e ammazzamenti contro i nativi della contea di Osage in questi Stati Uniti dove il Far West è stato sostituito da un'associazione a delinquere amministrata da Hale con il fine ultimo di sterminare gli autoctoni dell'Oklahoma. È come se Cosa Nostra e Adolf Hitler si fossero alleati. Furto e genocidio insieme. Come? Attraverso uccisioni, ruberie, appropriazioni di possedimenti e beni via matrimoni combinati per far ereditare tutto il denaro dei ricchi indigeni agli scagnozzi scelti da Hale per sposare le loro signore. Uno di questi è Ernest che incontrerà Mollie.

Ernest + Mollie

Quando Lily Gladstone entra in scena come la nativa Mollie Kyle il film migliora, semplicemente perché smettiamo di vedere solo le caricature di De Niro e DiCaprio. È come assistere all'ingresso di caratteri in minuscolo dentro un testo con il caps lock incastrato sulla funzione MAIUSCOLO. La Gladstone, su cui si sta già facendo logicamente campagna Oscar per Miglior Attrice (sarebbe la prima nativa a vincere il premio provenendo dalla Blackfeet Nation), è l'unico raggio di luce in mezzo al buio ma la sua presenza nel film, è puramente accessoria. Mollie è una signora che già si tappa le orecchie nei suoi primi minuti in mezzo al caos yankee di quei “bianchi” casinari che lei e la sua comunità chiamano “coyote, serpenti o conigli”. Gli indiani sono ricchi, anche sarcastici, ma elementari da raggirare. Questo è sempre un enorme problema di sceneggiatura che Scorsese non risolve mai partendo da quella contraddizione iniziale: perché accettano di farsi fare fuori così facilmente? Questa cupio dissolvi fa parte del loro percorso sulla Terra (il rito funereo iniziale della pipa da seppellire)? Scorsese, insieme al co-sceneggiatore Eric Roth, non dà mai profondità storica o antropologica alla sua pellicola. Ne viene pertanto fuori il solito inno scorsesiano, già non ammirato in Quei bravi ragazzi (1990), The Wolf of Wall Street (2013) e The Irishman (2021), ancora più immorale perché camuffato dentro una cornice da film finto progressista, al testosterone distruttivo dei gangster o dei criminali.
Chi nuoce merita sempre la stardom di solito finendo il film lindo, pulito e fresco come una rosa come in Quei bravi ragazzi e The Wolf of Wall Street o con lo sguardo affettuoso di un'infermiera e/o un prete in The Irishman. Chi subisce, non merita mai negli ultimi film di Scorsese alcuna attenzione registica.

Mentre Ernest pare innamorarsi di Mollie, poi accetta senza alcun problema che lei venga lentamente avvelenata su consiglio di Hale, con il suo benestare. Il regista è sempre troppo ammiccante nei confronti degli sterminatori per essere credibile come autore di una denuncia dei soprusi contro i nativi da parte di Hale & Co. E poi arrivano quattro scene che avremmo voluto non vedere mai nella loro progressione dentro il montaggio finale. A tre quarti di film, quando il piano di Hale & Co. viene scoperto dall'Fbi e Ernest comincia a collaborare (stessa distruzione dall'interno del clan mafioso come ai tempi di Henry Hill dentro Quei bravi ragazzi), noi vediamo quattro ultimi incontri tra Ernest e Mollie. Uno in mezzo alla prateria in cui lei è dolce, uno dentro una casa in cui lei è interrogativa, uno a un funerale in cui lei gli accarezza la guancia e infine l'ultimo in una stanza del tribunale in cui lei dovrebbe essere incazzata con Ernest ma nessuno la inquadra a lungo. Quattro scene in cui non sopportiamo che tre la vedano ancora ignara (fin quando, dentro un film, la buona fede o la fiducia che un personaggio prova per l'altro non scadono nell'idiozia?) e la quarta in cui è arrabbiata ma nemmeno troppo. Scorsese la riprende alzarsi e andarsene frettolosamente rimanendo poi su Ernest e non su di lei. Perché, ancora dopo 200 minuti, il film privilegia dentro il racconto l'uomo cretino e immorale e non inquadra sdegno, rabbia e dolore di una nativa, una donna e una madre raggirata, truffata e avvelenata?

Lily Gladstone

Il problema riguardo Mollie è sia di scrittura (il suo sguardo sornione deduttivo è controproducente se poi accetta passivamente tutto ciò che le capita; si crea un effetto derisorio involontario che appartiene alla satira e non al dramma) sia di screen time. Gladstone appare poco nel film. Negli inutili 206 minuti di final cut è un miracolo se arriva a 60 minuti. L'operazione per farle vincere l'Oscar appare come studiata, forzata (visto anche l'incomprensibile mancanza di un momento madre dedicato al suo personaggio nel finale nella stanza del tribunale) e più sulla carta che sullo schermo. Al momento la sua vittoria è la statuetta destinata a Killers of the Flower Moon per permettere a questa mediocre produzione da 200 milioni di dollari di budget di uscire con qualcosa in mano dalla Notte Oscar del 10 marzo 2024. Scorsese non è affatto un regista misogino. Straordinaria è Ellen Burstyn in Alice non abita più qui (1974; uno dei suoi più belli e meno ricordati dagli scorsesiani) così come sono magnifiche Pfeiffer e Ryder ne L'età dell'innocenza (1993) o la banda scatenata di Fuori orario (1985) composta da Rosanna Arquette (indomabile anche nel magistrale episodio Lezioni di vero in New York Stories), Linda Fiorentino, Teri Garr, Catherine O'Hara e Verna Bloom. E ci fermiamo qui anzi no: aggiungiamo quanto è bravo a raccontare Vera Farmiga, senza banalizzarla, in bilico sentimentale e sessuale tra due uomini nel film che finalmente gli fece vincere Miglior Film e Miglior Regista agli Oscar ovvero The Departed (2006).

Il problema dunque non è Scorsese ma l'ultimo Scorsese: sia in The Wolf of Wall Street (2013), che in The Irishman (2019) che in Killers of the Flower Moon è sempre sbilanciato con la macchina da presa dalla parte del maschile, adorandolo troppo e privilegiandolo sempre. DiCaprio cincischia e straborda nel manierismo recitativo anche quando dice “Insulina” come sua ultima battuta del film mentre Gladstone, ovviamente, non parla ed è già scomparsa per sempre. C'è da parte sua un vero e proprio trasporto amoroso quando lo vediamo raccontare per immagini quella che oggi viene definita mascolinità tossica. Hanno provato a portarlo in altre direzioni attraverso il misfatto storico riguardante gli Osage e William King Hale, ma è inutile: al suo cuore probabilmente non si comanda. La Gladstone non è mai centrale nel film. Non è protagonista, non è vibrante, non è credibile nel suo amore per quel personaggio imbecille fatto da DiCaprio. Funziona solo sulla carta per dire che Scorsese è uscito dal consueto inno dei gangster italoamericani. Ma è probabile che per l'Academy tutto questo possa bastare per dare un colpo al cerchio e uno alla botte e inserire Killers of the Flower Moon, e i suoi preoccupati finanziatori, nella Notte delle Stelle accanto ai nettamente superiori Povere creature, Oppenheimer e Barbie.

Conclusioni

Scorsese può rimanere un maestro, e Killers of the Flower Moon può essere un brutto film. E non c'entra niente la durata. Alla fine di Drive My Car (2019) di Hamaguchi chi scrive avrebbe voluto che quei 180 minuti non finissero e casomai ricominciassero. Nel caso di Killers of the Flower Moon, sorretto da una colonna sonora a tappetto pedissequa e asfissiante di Robbie Robertson, già dopo 30 minuti il film l'hai già visto tutto e non è che sia un granché. Pensiamo che si possa sostenere questa tesi e fare il critico cinematografico. Ci sentiamo degli idioti a scrivere questa ovvietà ma i tempi del dibattito cinematografico, specie sui social, sono così basso, e gli scorsesiani sono così ansimanti e aggressivi, che non ci si può estraniare da questa ridicola lotta e quindi ribadire l'essenzialità del dissenso rispetto a chi pensa di avere la verità in tasca e scatena ridicole guerre di religione sulla settima arte. Pertanto viva Scorsese e abbasso il suo ventiseiesimo lungometraggio, che speriamo non sia il suo ultimo.

Senza mai dimenticare che i film Marvel sono cinema.

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