Shrek terzo è stanco e spompato
Shrek terzo è un film che nasce da un’unica impellente necessità: continuare a fare soldi. E si vede: è divertente, ma gli manca un’anima
Come si fa a fare il sequel di un film su due personaggi che ormai hanno detto tutto quello che dovevano e a riguardo dei quali non ci rimane più tanto da scoprire? Una possibilità è non farlo, ma la storia del cinema insegna che pochissime persone prendono anche solo in considerazione l’ipotesi, figuriamoci realizzarla. L’altra possibilità è fare un semplice calcolo: Shrek incassò solo al box office quasi 500 milioni di dollari, e Shrek 2 sfiorò il miliardo. Il risultato di questa somma elementare è Shrek terzo, un nuovo capitolo nelle avventure della famiglia verde che vive nella palude e forse il primo del franchise a mostrare qualche segno di stanchezza e cedimento (quelli che sarebbero poi esplosi con il quarto capitolo, e chissà il quinto come sarà).
Shrek terzo riprende questo discorso e lo porta avanti con una notevole dose di ripetitività – e infatti tutto quello che riguarda Shrek e Fiona è la parte meno interessante del film. La storia è quella di un passaggio di consegne: il vecchio re ranocchio muore e Shrek ne eredita la corona, diventando il nuovo re di Molto Molto Lontano. Ma siccome Shrek è un orco verde casinista e misantropo, gli ci vuole poco a decidere che il potere non gli interessa, per cui si mette in viaggio in cerca dell’altro legittimo erede al trono, Semola Artù. Giusto prima di partire scopre tra l’altro che Fiona è incinta, e che presto diventerà padre: se Shrek 2 era vagamente psicologico, Shrek terzo è invece apertamente psicanalitico, con intere sequenze oniriche dedicate a mostrarci come Shrek si immagina la paternità e come questo incubo si intreccia con le sue peggiori paure (il vero problema, scopriamo, non è il fatto che arrivi un figlio, ma che sicuramente dopo il primo ne arriveranno altre decine, e addio solitudine).
C’è però tutta una parte di Shrek terzo che è molto più interessante delle menate genitoriali del protagonista, oltre a essere stuzzicante dal punto di vista intellettuale: stiamo parlando dei villain di turno, cioè azzurro e tutte le creature magiche che hanno perso la loro possibilità di vivere per sempre felici e contente in favore di un altro eroe o di un’altra principessa. Dicevamo che gli ultimi due capitoli di Shrek rispondono alla non essenziale domanda “com’è vivere per sempre felici e contenti se sei la coppia protagonista?” e lì si perdono, inseguendo discorsi un po’ scontati e affrontati meglio altrove. Ma Shrek terzo prova anche ad affrontare il “felici e contenti” dal punto di vista di chi ha perso e con la sua sconfitta ha permesso l’esistenza stessa del “felici e contenti”. In sostanza è come se il film dicesse che nessuno vive davvero felice e contento per sempre: né chi ha vinto, né chi, a maggior ragione, chi ha perso, e ora (nel film, intendiamo) va in cerca di vendetta.
Che poi questa vendetta si risolva in una serie di scene d’azione ben girate ma prive di guizzi, e soprattutto in un finale talmente addomesticato per gli standard della serie da risultare paradossalmente offensivo, è solo uno dei tanti problemi di Shrek terzo, e non il più grosso. Ma quantomeno nella storia di Azzurro e della sua vendetta c’è il germoglio di qualcosa di interessante, un seme che sarebbe stato bello approfondire magari in uno spin-off a tema villain (se ne esiste uno sul Gatto con gli stivali può esistere qualsiasi cosa). È appena una scintilla, ma è comunque più stimolante dell’ennesima citazione pop o dell’ennesima gag slapstick che, diciamolo senza vergogna, arrivati al terzo film hanno smesso di fare ridere.