Shoot ’Em Up: molto pleasure, un po’ guilty

Shoot ’Em Up con Clive Owen e Monica Bellucci ha retto sorprendentemente bene al test del tempo, con un paio di caveat

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Shoot ’Em Up va in onda su 20 Mediaset questa sera alle 21:04

Ci sono poche espressioni più frustranti di “guilty pleasure”, che almeno in ambito cinematografico indica quella sensazione per cui il piacere di guardare un film che ci piace fa a pugni con la vergogna di stare apprezzando un prodotto scadente. Non bisognerebbe mai vergognarsi dei propri gusti! E l’apprezzamento per un film può tranquillamente coesistere con la consapevolezza della sua scarsa qualità. Shoot ’Em Up di Michael Davis è il classico esempio di film che viene catalogato come “guilty pleasure”: è una lunga sequenza di sparatorie tenute insieme con lo scotch e un po’ di spago travestito da trama, e lo si guarda per godersi la violenza e le one liner più che per ricevere illuminazioni sulla natura più profonda del nostro essere umani.

Siamo qui per dirvi che se amate Shoot ’Em Up potete smetterla di vergognarvi, ma anche per spiegarvi che secondo noi ci sono tantissimi buoni motivi per considerare il film un “pleasure”, ma anche qualcuno per considerarsi “guilty” nell’apprezzarlo. Per fortuna, anche a distanza di 15 anni, i primi sono più numerosi dei secondi.

Shoot ’Em Up nasce da un presupposto semplicissimo, una mission senza fronzoli: a Michael Davis era piaciuto un sacco Hard Boiled di John Woo (ma va’?), e in particolare la scena in cui Chow Yun-fat ammazza un gruppo di gangster a pistolettate mentre salva dei neonati. Davis decise quindi di provare a scrivere e girare un film espandendo quest’idea, e in particolare “un action basato sulle pistole ma privo di esplosioni” – un’impresa tutto sommato coraggiosa, se ci pensate bene, soprattutto considerando che le sparatorie di Shoot ’Em Up si svolgono in una serie di location sempre più infiammabili e potenzialmente distruttive.

La sceneggiatura di Shoot ’Em Up esisteva già nel 2000, ma ci mise sette anni a diventare un film: nessuno glielo voleva produrre perché il ricordo di Columbine era ancora vivo nelle menti di tutta l’America (e nelle preoccupazioni degli exec di Hollywood). Per tutto il settennato Davis non si diede per vinto, creando addirittura degli animatic per illustrare ai potenziali produttori quello che aveva in mente per le scene più intricate.

Alla fine Davis riuscì a convincere New Line Cinema a farsi dare i soldi, e a organizzare una campagna di marketing virale che prevedeva tra l’altro la pubblicazione su YouTube del video che vedete qui sopra. E riuscì anche a convincere, con la forza della sua sceneggiatura, le star che aveva in mente per i ruoli principali: Clive Owen, Monica Bellucci, soprattutto Paul Giamatti, l’unico dei tre a venire scelto perché solitamente interpretava personaggi completamente diversi dal sadico pervertito pensato per lui da Davis.

Il risultato di questa bizzarra unione (John Woo + Clive Owen + pistole + sesso assurdo + Paul Giamatti – esplosioni) è un film lineare ai confini del minimalismo, un action di una purezza luccicante che rimane sempre in movimento per un’ora e mezza, persino durante quelli che dovrebbero essere i dialoghi più espositivi. È un film che riconosce che a certi eroi del genere non serve una motivazione: si apre con Smith, il protagonista interpretato da Clive Owen, che si sta facendo i fatti suoi su una panchina. Quando però incrocia una bionda sconosciuta e incinta e i suoi inseguitori armati, Smith capisce che  non può più ignorare la situazione, ed entra in azione per salvare la donna e il figlio nascente. Perché? “Perché sì” vi risponderebbe lui.

Dal momento in cui Smith si fa invischiare in una complicata (ma non troppo) storia di neonati, midollo spinale e controllo delle armi fino al momento in cui partono i titoli di coda, Shoot ’Em Up non si ferma mai. Le infinite sparatorie sono utilizzate per tutto: far procedere l’azione, mettere in mostra le capacità quasi sovrumane del protagonista, persino spiegare nei dettagli la situazione e il motivo per cui quel bambino è così ricercato. Neanche il sesso è immune alle pallottole, come dimostra la scene rotante che coinvolge Owen, Bellucci e una serie di scagnozzi che vengono crivellati dal nostro arrapatissimo (e sempre in azione anche nell’altro senso) eroe, in quello che è una smaccata e inequivocabile dichiarazione d’intenti del tipo “sparare è un atto sessuale”.

Shoot ’Em Up è però anche un film pieno di idee a tratti assurde ma sempre assurdamente efficaci. Ogni scena d’azione nasconde almeno uno o due momenti folli, che sia una carota usata come arma letale o una sparatoria ad alta quota di quelle che il Tom Cruise di oggi chiederebbe di girare senza stunt, senza CGI e senza paracadute. E la violenza ultra-grafica che punteggia tutto il film garantisce anche a Shoot ’Em Up una certa immunità all’ironia postmoderna che tanti action ha rovinato negli ultimi quindici anni.

Dove sta allora il “guilty” di cui parlavamo all’inizio? Volendo si potrebbe farne un discorso ideologico, una critica al modo in cui le pistole sono usate e in qualche modo glorificate anche quando il protagonista a parole fa di tutto per sminuirle. Ma il vero problema è un altro, ed è squisitamente cinematografico: fare un film alla John Woo è una scelta apprezzabile, ma funzionerebbe meglio se il risultato finale fosse effettivamente all’altezza del modello. Invece Shoot ’Em Up si perde troppo spesso nella confusione pura, offusca l’azione per nasconderla dietro l’ipercinetismo invece di metterla in mostra con inquadrature chiare e un montaggio meno frenetico.

Stiamo comunque parlando di un action girato con competenza e qui e là con gusto, non di un disastro registico. È solo un peccato che delle idee così brillanti e originali, che a tratti ricordano il quasi coevo Crank, vengano un po’ annegate da una regia non all’altezza delle proprie ambizioni. D’altra parte stiamo parlando di un film nel quale il protagonista impugna una manciata di pallottole e ficca la mano in un caminetto per farle sparare: meglio concentrarsi sul “pleasure”, e mettere da parte qualsiasi senso di colpa.

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