Sherlock Holmes – Gioco di ombre è l’inizio della fine di Guy Ritchie
Sherlock Holmes – Gioco di ombre è un ottimo film che segna il momento esatto nel quale Guy Ritchie ha esaurito la sua ispirazione
Nel 2011, l’anno in cui Sherlock Holmes – Gioco di ombre uscì al cinema, Guy Ritchie era un regista che aveva da poco abbandonato i rassicuranti confini del cinema indie per fare capolino sul palcoscenico dei blockbuster con la sua personalissima e convincente versione del personaggio creato da Arthur Conan Doyle. Sempre nel 2011, Robert Downey Jr. era sul punto di ri-affacciarsi su quello stesso palcoscenico, dopo anni di problemi e un reboot professionale e personale lanciato, tre anni prima, dal primo Iron Man: il suo Sherlock Holmes era piaciuto, gli Avengers erano alle porte e l’ex star della commedia erotica girata da suo padre Rented Lips si avviava a diventare uno degli uomini più ricchi, famosi e potenti di tutta Hollywood.
Sherlock Holmes – Gioco di ombre, tanto ma non troppo
Sherlock Holmes – Gioco di ombre è per molti versi l’esempio perfetto di come si fa un sequel – non un secondo capitolo di una trilogia, non un altro pezzo di una storia più ampia, ma un sequel, un “capitolo 2” come si usava nell’era pre-universi condivisi. Prendi gli stessi elementi, gettali in mezzo a una storia nuova e che non richiede necessariamente conoscenze pregresse (ma che ci si gode di più se si ha già avuto a che fare con questi personaggi), e alza il volume di tutto: la trama è più intricata, le esplosioni più grosse e frequenti, la posta in palio enorme e anche il cattivo di turno, il Moriarty di Jared Harris, parecchi gradini sopra il pur bravo Mark Strong del primo capitolo.
Sherlock Holmes – Gioco di ombre e lo swag
Per riassumere, il secondo Sherlock Holmes è l’incontro perfetto dell’istanza-sequel (più roba del precedente!) e dell’istanza-Guy Ritchie (più roba in generale!). E si vede: scritto da Dexter Fletcher (lo stesso che anni dopo prenderà il posto di Bryan Singer alla regia di Bohemian Rhapsody), è una giostra opulenta che supera le due ore di durata, nelle quali tra le altre cose assistiamo a un attacco terroristico in un hotel, una sparatoria nei boschi, una scena di tortura, una scena di cross-dressing di Robert Downey Jr., una scena di tortura su Robert Downey Jr., un matrimonio, un salto dal treno, e ovviamente, se non avete visto il film saltate al paragrafo successivo perché sta per arrivare uno SPOILER, sulla morte (apparente) del protagonista.
E Guy Ritchie ovviamente non si risparmia nulla, non si lascia mai sfuggire l’occasione di provare un nuovo trucchetto, di infilare quel po’ di slo-mo che permette di apprezzare ancora meglio la coreografia, non tiene mai ferma la macchina da presa; vi basti riguardare questa scena, che da sola contiene più inqudrature dell’intera filmografia di Tarkovski. Con Gioco di ombre, che è costato 125 milioni di dollari nel 2011, Guy Ritchie ha avuto a disposizione un giocattolo costosissimo e dalle potenzialità quasi infinite, e uno star power impressionante, tanto che se c’è una critica che gli si può muovere è che in un paio di momenti, durante un paio di sequenze particolarmente stirate o di fronte all’ennesimo snodo di trama, quello che verrebbe da dirgli è “anche meno”.
La vita dopo Gioco di ombre
E invece Guy Ritchie ha fatto il contrario e ha puntato sull’“anche più”, e ha in questo modo buttato via parecchi anni e possibilità. Subito dopo Gioco di ombre, e dopo essersi goduto una meritata pausa di un paio d’anni, ha lavorato a Operazione U.N.C.L.E., un tentativo di riportare lo stesso stile dei due Sherlock Holmes in un contesto relativamente più moderno ma sempre irrimediabilmente British – con risultati rivedibili. È seguita l’esperienza di King Arthur, forse la dimostrazione più plastica di come il guyritchie-ismo funzioni meglio in certi contesti e non sia una disciplina necessariamente applicabile ovunque; il suo difetto più grosso non è tanto quello di incrociare il linguaggio e l’attitudine stradaiole con la storia di Re Artù, quanto quello di essere troppo concentrato sui soliti trucchetti: montaggio selvaggio, narrazione non lineare, esperimenti con la macchina da presa anche nei momenti più normali...
In un certo senso, quello che ha fatto Guy Ritchie dopo Sherlock Holmes – Gioco di ombre è stato inseguire per anni quella stessa scintilla, andare in cerca di una storia nota (anche U.N.C.L.E. era ispirato a una vecchia serie TV) alla quale dare nuova vita seppellendola sotto palate di one liner e palazzi in fiamme – una scelta anche comprensibile considerando che il film incassò più di 500 milioni di dollari. Non ci è più riuscito, e ha rischiato di perdersi per sempre inseguendo se stesso e la sua stilosità, ma il recente The Gentlemen ha dimostrato che forse Guy Ritchie si è rimesso in carreggiata (dopo il successo, su commissione, del live action di Aladdin). Per conferme attendiamo con impazienza il suo nuovo film, Wrath of Man, nel quale tornerà a collaborare con Jason Statham, e nel frattempo ci gustiamo un’altra volta Gioco di ombre.