Sherlock Holmes è la sintesi perfetta tra le due anime di Guy Ritchie

Sherlock Holmes è un adattamento coraggioso dei romanzi di Conan Doyle, e unisce alla perfezione le due anime di Guy Ritchie

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Sherlock Holmes va in onda su 20 Mediaset questa sera alle 21:04 e in replica domani sera alle 23:36

Quando lo Sherlock Holmes di Guy Ritchie uscì al cinema, nel lontano 2009, eravamo ancora ai primordi dell’era dell’adattamento compulsivo, e l’idea di resuscitare per l’ennesima volta il personaggio di Arthur Conan Doyle dandogli un taglio più moderno e d’azione sembrava un sacrilegio – erano ancora i tempi in cui, nella nostra completa innocenza, avevamo ancora la forza di gridare allo scandalo per progetti del genere. Gli oltre 500 milioni incassati dal film dopo la sua uscita servirono a dimostrare due cose: innanzitutto che eravamo solo all’inizio, e in secondo luogo che non c’era necessariamente da preoccuparsi, perché Sherlock Holmes (guarda il trailer) dimostrava che anche gli adattamenti più improbabili sulla carta possono funzionare se affidati alle persone giuste. E al tempo non c’era persona più giusta di Guy Ritchie.

Sherlock Holmes e Doomsday

E pensare che all’inizio il film non avrebbe nemmeno dovuto dirigerlo Guy Ritchie, ma Neil Marshall, che si era fatto un nome e una reputazione con The Descent e che era reduce da quella bizzarra versione britannica di Mad Max intitolata Doomsday. Invece il lavoro finì a Ritchie, la cui carriera si stava lentamente ma inesorabilmente trasformando da scintillante a opaca dopo che con i suoi ultimi due film (Revolver e soprattutto RocknRolla) aveva provato a ripetere la formula vincente di Lock&Stock e The Snatch senza riuscirci – non per mancanza di mezzi ma di ispirazione.

Sherlock Holmes può quindi essere visto come un momento di svolta, e un cambio radicale di approccio al cinema per Ritchie, che passa da autore indipendente con un controllo pressoché totale dei suoi film a parte di un ingranaggio gigantesco (Warner Bros., e con un produttore noto per la sua onnipresenza come Joel Silver) messo in moto con lo scopo di guadagnare un sacco di soldi e se possibile gettare le basi per future iterazioni dello stesso concetto. Il film diventa così anche la dimostrazione di un altro assunto che si tende a dimenticare quando si pensa al regista-autore che realizza pienamente la sua visione: ogni tanto, un po’ di controllo creativo da parte di grigi exec di una multinazionale fa bene.

Sherlock Holmes e Watson

Sherlock Holmes e Conan Doyle

Sherlock Holmes secondo Guy Ritchie è figlio ideale del personaggio di Conan Doyle, di Jason Statham e di Robert Downey Jr. in quanto icona pop. Dell’originale mantiene vizi e vizietti, e una tendenza all’autodistruzione che è conseguenza del suo tedio da essere superiore (qualcosa che Downey Jr. mette in scena con il solito talento, ma senza staccarsi troppo dall’irrinunciabile modello-Tony Stark); oltre che alcuni dettagli classici come l’amore per il violino e la completa assenza di capacità sociali. Di Statham, inteso non come attore ma come simbolo del tipico protagonista ritchie-ano, eredita i muscoli e la capacità di fare a botte, che nei romanzi di Conan Doyle era presente ma non così centrale per la definizione del personaggio – anche perché Ritchie ha a disposizione un mezzo visivo che rende ogni scazzottata più spettacolare e intensa di quanto potesse risultare in un romanzo.

Robert Downey Jr., come accennavamo sopra, è il dettaglio finale. Solo un anno prima era uscito Iron Man, l’inizio della seconda scalata al successo dell’attore che aveva rischiato di sparire nel nulla a causa dei suoi problemi con alcool e droga, e Sherlock Holmes gli presentava la possibilità di prendere un personaggio tutto sommato facile, con un canone molto conosciuto almeno a linee generali e alle spalle più di un secolo di variazioni sul tema a cui ispirarsi, e di renderlo suo, applicandogli una passata di “sexy e annoiato, bello e maledetto ma sulla via della redenzione”, cioè lo standard che Downey Jr. applicherà da lì in avanti a tutti i suoi personaggi. Importa relativamente che Ritchie gli abbia scelto una spalla capace di farsi da parte per lasciargli la scena (Jude Law), un villain con la faccia giusta per parlare di fede e razionalità, di magia, satanismo e scienza (Mark Strong) e una nemica-amica che è la versione premio Nobel di una femme fatale (Rachel McAdams): con ogni probabilità Sherlock Holmes funzionerebbe anche se Robert Downey Jr. fosse circondato da manichini.

Jude Law Eddie Marsan

Vecchio Sherlock e nuovo Sherlock

Questo perché, e qui arriviamo a Guy Ritchie, l’intero impianto di Sherlock Holmes è costruito intorno a... be’, Sherlock Holmes: è la storia di un personaggio e di una serie di satelliti che gli ruotano intorno, e che in un modo o nell’altro ne mettono a prova l’intelligenza sopraffina. Ritchie è sempre stato abituato a raccontare storie corali (con l’eccezione di Travolti dal destino, del quale non parleremo), e in Sherlock Holmes si vede invece obbligato a dirigere un’epica con un singolo protagonista, un personaggio che deve diventare centrale non solo per il film ma per i piani di marketing di Warner Bros. (come dimostra il modo in cui non solo il finale, ma tutto il film è fatto apposta per lanciare un sequel).

E ci riesce, perché anche le scene che in film meno ispirati verrebbero catalogate come “esigenze di copione” qui prendono vita e regalano almeno una gemma, un momento di ispirazione, che sia una battuta particolarmente ben riuscita o uno dei tanti montaggi dedicati a “Sherlock intuisce cose”. Diviso tra necessità produttive e la voglia di lasciare libera la sua creatività, Ritchie sceglie il giusto mezzo, muovendosi nel recinto di un prodotto costruito con strumenti di precisione e riuscendo a trovare spazio per le zampate d’autore.

Per molti versi, Sherlock Holmes è un prodotto prima ancora che un film: un veicolo per lanciare il nuovo Sherlock, una vetrina per Robert Downey Jr., un ottimo modo per spendere un centinaio di milioni di dollari e incassarne cinque volte tanti. Per altri è uno dei film migliori di Guy Ritchie, la sintesi perfetta tra le sue due anime (quella delle risse per strada e quella che vuole sfondare nel cinema a 6 zeri), nella quale il suo talento è controllato ma non castrato dalle regole del blockbuster. Gioco di ombre, il suo film successivo, fa già un passo nella direzione della bulimia visiva, come dicevamo già qui, e ci è voluto quella sorta di ritorno alle origini che è The Gentlemen per dimostrarci che Ritchie è ancora vivo, e non si è perso mentre si guardava l’ombelico

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