Seven è ancora agghiacciante
Seven di David Fincher era un thriller sconvolgente nel 2005, e lo è ancora oggi a distanza di quindici anni dall’uscita
È difficile immaginare che nel 2020 ci possano essere ancora persone interessate al cinema che non sanno nulla di Seven e in particolare del suo finale. David Fincher, che al tempo era ancora un semi-esordiente al suo secondo film e che era andato a tanto così da non riuscire a superare l’ostacolo del primo, si è affermato nel frattempo come uno dei più grandi autori americani degli ultimi decenni, uno capace di trasformare in oro qualsiasi cosa tocchi (e speriamo che Mank ce lo confermi). Brad Pitt, che nel 1995 era già una star in ascesa ma che doveva ancora dimostrare di poter andare oltre al fatto di essere bello come il sole, oggi è uno dei migliori attori, e uno dei volti più riconoscibili, del pianeta. Kevin Spacey, il cui nome non compare neanche nei titoli di testa del film e che vinse proprio quell’anno il suo primo Oscar, oggi è... be’, la sua situazione la conoscete, e anche il suo lavoro.
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Seven e Alien 3
A ripensarci a posteriori, con tutto quello che abbiamo scoperto negli anni sul film e sul suo autore, il primo dettaglio sconvolgente di Seven è che sia stato realizzato. Lo scrisse Andrew Kevin Walker, un tizio che arrivava dal cinema di genere (i suoi primi due lavori da sceneggiatore furono il thriller sci-fi Brainscan – Il gioco della morte e il thriller horror Premonizioni), che su Cinefantastique (via Wikipedia) nel 1996 raccontava di essersi ispirato alla sua esperienza di vita a New York: dice che è stata pessima, e a giudicare dal film che gli ha fatto scrivere non fatichiamo a credergli. Resta il fatto che la sua sceneggiatura funzionava al punto che venne comprata e fatta circolare immediatamente, alla ricerca delle persone giuste per metterla in scena.
Si pensò a Jeremiah Chechik, che veniva da Diabolique con Sharon Stone, forse uno dei peggiori thriller psicologici usciti durante l’epoca d’oro del thriller psicologico (della quale la stessa Stone fu protagonista anche in positivo). Si provò a coinvolgere Al Pacino, Robert Duvall e Gene Hackman per il ruolo che sarà di Morgan Freeman, e Sylvester Stallone e Denzel Washington (che rosica ancora oggi) per quello di Brad Pitt. E infine si arrivò, per la regia, al nome di David Fincher, che venne salvato dall’oblio nel quale era precipitato dopo la pessima esperienza di Alien 3 e che si convinse a girare il film dopo la prima lettura dello script. Ed è qui che le cose diventano interessanti.
Seven e la città senza nome
Prima, però, un ripassino sul film, nel caso non vi ricordaste di cosa stiamo parlando. Seven è, per i primi due atti almeno, un linearissimo thriller che coinvolge una strana coppia di poliziotti e un misterioso serial killer che uccide ispirandosi ai sette peccati capitali della fede cristiana. È ambientato in un non-luogo, una città senza nome nella quale tutto è decadenza e squallore e dove nulla funziona esattamente come dovrebbe: è chiaramente New York, o almeno lo stereotipo dei quartieri peggiori di New York, ma non viene mai nominata, e viene anzi trattata come un luogo fuori dal tempo, una sacca di non-realtà nella quale la gente normale non dovrebbe mai addentrarsi.
(prima che facciate la giusta obiezione: sì, a un certo punto nel film i due protagonisti entrano in un ristorante che si chiama New York Pizza. Ebbene, si tratta di un locale ormai chiuso che si trovava al 6302 di Hollywood Boulevard, a Los Angeles)
«Perché hai scelto di farti trasferire qui?» chiede il detective Somerset (Freeman) al detective Mills (Pitt) al suo primo giorno di lavoro. «Volevo fare del bene» risponde lui. «Sì, ma perché proprio qui? Non ho mai visto una cosa del genere nella mia carriera». Non-New-York è un inferno nel quale non esistono persone innocenti ma solo diversi gradi di corruzione: è un impianto narrativo quasi horror, nel quale Mills e la moglie Tracy (Gwyneth Paltrow) rappresentano l’elemento esterno, e quindi non ancora macchiato del peccato originale di abitare lì.
Corruzione, perversione e John Doe
Tutto il film deriva a cascata dalle considerazioni precedenti. Somerset è un vecchio detective a un passo dalla pensione che ne ha viste troppe (e cionostante dice a più riprese «non riconosco più questo posto») e affronta il suo lavoro con cinismo e disillusione. Il suo dipartimento di polizia è popolato di gente che sul posto di lavoro fa il minimo indispensabile per campare ma che ha perso ogni empatia con le vittime dei crimini che si ritrova a investigare con allarmante regolarità. I giornalisti comprano informazioni dai poliziotti, gli avvocati mentono ogni volta che aprono bocca... Seven è un film corrotto fino al midollo, talmente cupo che persino la pellicola su cui è stato girato è stata alterata chimicamente per pervertire e scurire i colori originari.
E ovviamente, in questo stagno di putredine umana che è la città dove si svolge il film, nuota il peggiore di tutti, il serial killer in questione, il genericissimo John Doe, che non si limita a uccidere le proprie vittime e a lasciare messaggi arguti alla polizia spingendola ad amplificare i propri sforzi perché «sta giocando con noi!»; questo succede nei thriller normali, mentre Seven è un thriller solo in apparenza, perché convince i suoi protagonisti e soprattutto chi guarda di stare osservando la più classica della caccia al topo, per poi ribaltare la situazione in vista del traguardo e rivelare chi fosse davvero la persona in controllo fin dall’inizio. John Doe, dicevamo, non uccide e basta; John Doe tortura, e se la gode pure, e lo fa in modi orrendi e disgustosamente creativi: costringe un obeso a mangiare fino a scoppiare (quasi letteralmente), obbliga il cliente di una prostituta a ucciderla con uno strap-on dotato di lama, tiene prigioniero e legato al letto un pederasta per un anno intero trasformandolo in una sorta di fantasma dei Natali immorali passati...
La parte che dovreste saltare se non volete SPOILER
E ovviamente, alla fine di tutto, e se per qualche motivo non avete ancora visto il film smettete di leggere, dopo aver condotto l’intero corpo di polizia in un inseguimento attentamente calcolato per dare agli inseguitori abbastanza indizi da spingerli a proseguire ma non un grammo in più, John Doe cala il suo asso, e si consegna, coperto di sangue, alla polizia. È in quel momento che tutte le certezze tipiche del genere cadono: Mills e Somerset hanno appena passato un’ora e mezza a inseguire un fantasma che era sempre tre passi avanti a loro, e non hanno mai davvero avuto alcuna speranza di catturarlo (il momento più umiliante del film in questo senso è quando Doe potrebbe sparare in testa a Mills ma gli risparmia la vita). E così noi che guardiamo scopriamo di aver fatto il tifo per il cavallo sbagliato, e di aver appena visto un film nel quale la tensione, il thrilling, il mistero, erano tutti giochi di specchi inventati dal villain, del quale anche il pubblico diventa così in un qualche modo vittima.
La resa di Doe è il vero colpo da maestro di Walker: da quel momento non esistono più certezze, e la promessa del killer («Se fate come dico troverete altri due cadaveri») l’unico appiglio per provare a capire dove stia andando a parare Se7en. Che già fin lì si era comportato in modo strano per essere un film su un serial killer: di lui sappiamo solo che uccide, e chi uccide, ma il dettaglio più terrificante è che vediamo le sue “opere” solo quando sono già concluse, mai in corso d’opera; questo lascia enorme spazio alla fantasia, e porta naturalmente a immaginarsi Doe in azione, un pensiero terrificante considerata la condizione in cui ha lasciato tutte le sue vittime.
E che sul finale, quello che potremmo chiamare il momento della scatola, capitalizza tutto quello che ha seminato fin lì: il disorientamento (chi è il tizio sul furgoncino? Perché sta arrivando? Che cosa vuole? È il complice che aiuterà Doe a scappare?), il terrore che ci sia qualche dettaglio che ci è sfuggito e che potrebbe dare un senso a tutto il resto, e infine il Momento, il montaggio parallelo con da una prte Kevin Spacey che confessa a Brad Pitt quanto gli invidi la sua vita normale con un bel lavoro e una bella moglie, dall’altra Morgan Freeman che apre lentamente la scatola e capisce che cos’ha tra le mani. Arrivati a quel punto non c’è neanche bisogno di far vedere il contenuto, proprio come non c’era bisogno di farci vedere John Doe in azione: all’improvviso è tutto talmente vivido e persino scontato che vediamo la testa di Gwyneth Paltrow pur senza davvero vederla (anzi, si potrebbe obiettare che Kevin Spacey che dice esplicitamente a Brad Pitt «l’ho decapitata» sia un momento superfluo).
Testa sì o testa no?
Torniamo quindi al discorso che abbiamo aperto qualche paragrafo fa: la scena della scatola è uno dei momenti più definenti dell’intero cinema di Fincher e senza dubbio il motivo per cui Seven è un film indimenticabile – eppure abbiamo corso il rischio che non esistesse. Presente fin dalla prima versione dello script, quella sequenza venne eliminata in fase di revisione dagli studios, i quali avrebbero preferito un finale più ottimista, o quantomeno in linea con gli standard del genere. Fincher, però, ricevette per sbaglio la versione originale, e nel momento in cui gli spiegarono l’errore e gli chiesero di cambiarla reagì dicendo «o la facciamo così, o io il film non lo faccio».
Il regista lottò duramente, spalleggiato anche da Brad Pitt, per l’intera durata delle riprese con la produzione, che spingeva per trovare soluzioni meno shockanti per il finale (tra quelle proposte c’era anche che la scatola contenesse la testa di uno dei cani di Mills, il che peraltro avrebbe reso Seven un prequel di John Wick) e che alla fine trovò il compromesso perfetto: la testa la puoi tenere, gli dissero, ma non la facciamo vedere. Con il senno di poi, crediamo che sia andata meglio così: nascondendo quello che (dal punto di vista dei protagonisti del film, almeno) è il peccato più grande commesso dal killer e lasciandolo alla nostra immaginazione, Fincher ha creato un finale dieci volte più agghiacciante della sua ipotetica versione gore, vissuto vicariamente tramite gli occhi sconfitti di Morgan Freeman e le urla lancinanti di Brad Pitt.
Nessun primo piano su una testa di plastica con la faccia di Gwyneth Paltrow avrebbe mai avuto lo stesso effetto.