Servant è finito: ci ricorderemo poco dei misteri, molto delle sperimentazioni

Il finale di Servant è meno riuscito della penultima puntata. Significa che la serie colpisce più forte quando osa che quando spiega

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Il primo novembre 2019 Apple TV+ debuttò con tre produzioni originali: For All Mankind, The Morning Show, See. Il 28 novembre arrivò Servant, l’attesissima serie frutto dell’accordo con la Blinding Edge Pictures di M. Night Shyamalan. La prima stagione, che possiamo giudicare come la più riuscita delle quattro, ora che è arrivato il finale, ha contribuito a dare un’identità chiara alla piattaforma.

Pochi contenuti ma curati, caratterizzati da una ricerca autoriale di nuove soluzioni e toni narrativi. Servant parlava il linguaggio classico delle serie TV: una mamma sconvolta per la morte del figlio affronta una terapia tramite bambole reborn. Arriva ad aiutarla una tata dal passato oscuro: Leanne. Un giorno Jericho, il figlio, si reincarna al posto della realistica bambola. Che cosa è successo? È un inganno della nuova arrivata in casa Turner o un vero miracolo?

Dentro questa struttura da serial settimanale che guarda a Twin Peaks (per la quantità di indizi e false piste), Shyamalan ha inserito una sorta di Ai confini della realtà. Come da lui ammesso nell’ultimo dietro le quinte il progetto ha rinunciato alla coerenza interna di stile (e a volte, dobbiamo dirlo, anche di trama) per creare piccoli film della dimensione di episodi. Lontana dall’essere una serie antologica, Servant è diventata però una sandbox per sperimentare le sfumature del thriller psicologico fino all’horror. 

Questa quarta stagione, caratterizzata da alti molto alti e alcuni bassi, ha trovato nel penultimo episodio la sua vetta assoluta. La rottura del “velo di Maya” che affligge Dorothy sin dal primo episodio, attesa per quattro anni, si è rivelato il cuore della serie molto più che l’effettivo finale. La regia del nono episodio è stata curata da Shyamalan per unire l’orrore assoluto, le urla di vero dolore, il volto dagli occhi assenti e con la muscolatura contratta dalla violenza della verità, con il (melo)dramma famigliare. La miscela è stata pazzesca.

Non tutti i tentativi simili sono riusciti allo stesso modo. Alcune puntate, come quelle ambientate ad Halloween hanno flirtato con lo slasher senza avere uguale potenza. Quando Servant è diventato una storia di streghe ha inquietato di meno rispetto a quando trovava nel conformismo alto borghese, nelle usanze sociali dei ricchi, una satira decisamente “creepy”. 

Visto l’episodio finale ci si rende conto che la seconda e la terza stagione potevano essere compresse in un paio di puntate. È la maggiore pecca di una serie che ha spesso rischiato lo stallo, restando però incredibilmente appassionante. Come mai si è perdonato a Servant quello che avrebbe portato ad abbandonare qualsiasi altro prodotto simile?

La risposta è, probabilmente, proprio nella trasformazione che è avvenuta nella seconda stagione (e successive) in cui è diventata più forte a osare che a spiegare. Ci sono ancora tanti misteri da risolvere: una finestra in più che talvolta appare nella casa, le vicende di Roscoe sbiadite nella sua memoria, come funziona l’incantesimo di resurrezione (Jericho è sempre una bambola ma prende vita quando le persone credono che sia realmente lui o realmente si reincarna per poi talvolta scomparire?). In che cosa credono veramente i fedeli del culto? Quanto di ciò che abbiamo visto è sovrannaturale e quanto ha una spiegazione razionale? Ma questo, in parte, è un il gioco ambiguo della sceneggiatura.

Come spesso accade con i misteri così grandi, la risoluzione non soddisferà tutti. L’ultima mezz’ora è piuttosto traballante. Passino gli effetti visivi, anche la recitazione appare meno sul pezzo (a riprova di quanto Shyamalan sappia tirare fuori il meglio dagli attori, molto più degli altri registi della serie). A conti fatti però è per gli enigmi che Servant si è fatta seguire, non è per questo che verrà ricordata.

Quello che mancherà di più è la sua impostazione: fatta per non essere perfetta, ma per cercare di essere sempre nuova. La sua struttura si ritrova nella casa Turner. Un edificio che cambia sotto gli occhi, che scricchiola talvolta, che è attraversato da crepe, eppure regge e resta in piedi per fortuna o per magia.

La sceneggiatura di Servant fa come i Turner: prende inquietudini, traumi, fantasmi e li nasconde tra le pareti. Scopre corridoi segreti mai notati prima. Invece che risolvere, che rispondere alle domande, aprono altri interrogativi. Come insegna Lost: per ogni risposta va proposto un altro mistero.

Così Servant è stata una serie chiave per mostrare quello che Apple TV Plus poteva essere nel primo mese di vita (poi confermato da tantissime altre produzioni di qualità). Ha permesso a Rupert Grint di ritrovare uno spazio scenico che lo aiutasse ad affermarsi come attore vero, ha confermato la promessa che è Nell Tiger Free e il talento della già citata Lauren Ambrose.

Più di tutto però Servant ha usato le sue quattro stagioni per fare un viaggio nei territori oscuri dell’accettazione del lutto. La negazione è l’oggetto dei primi dieci episodi. Seguito dalla rabbia e dalla contrattazione, la ricerca di equilibrio tra la tata e la famiglia nella seconda stagione. La terza stagione è stata quella della depressione, del sentirsi perduti, a pezzi. Servant si chiude con l’accettazione, il passaggio più faticoso sia per i personaggi che per chi deve metterlo in scena. Ne abbiamo la certezza solo negli ultimi istanti: questa terapia non è mai stata esclusiva di Dorothy, ma ha riguardato tutta la famiglia. 

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