Scream e il delicato equilibrio tra metacinema e autoparodia

Scream di Wes Craven ha inaugurato una stagione di metacinema horror che non ha imparato la sua lezione più importante: la storia viene prima di tutto

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Scream va in onda su Italia 1 e Italia 1 HD questa sera alle 21:20

Immaginate che siano gli anni Novanta. Avete trent’anni e una promettente carriera da sceneggiatore davanti a voi e una grande passione per i film horror, un po’ macchiata dalla delusione nel constatare che il genere che vi ha formato sembra aver perso la sua carica sovversiva ed essersi appiattito su formule sempre uguali e su una tendenza sempre più marcata a trasformare tutto in un franchise con sequel, prequel e spin-off. Immaginate di volere cambiare le cose, e immaginate che nel frattempo nel mondo succedano fatti di cronaca che sembrano scritti apposta per stuzzicare la vostra creatività. Avete immaginato? Complimenti, avete appena vissuto per qualche secondo nei panni di Kevin Williamson quando, nel 1995, scrisse Scream, uno degli horror di maggiore successo di sempre nonché uno dei pochi che possa vantarsi di avere davvero cambiato le cose – se in meglio o in peggio lo lasciamo decidere a voi.

Il racconto di poco sopra della genesi di Scream viene da Wes Craven in persona (se volete ascoltare una serie di belle storie e testimonianze sul film, anche da parte di gente che ne è stata influenzata tipo Eli Roth, su YouTube trovate un bel documentario); nel concepire la storia del film, Williamson fu influenzato dalla figura di Danny Rolling, un serial killer che uccideva studentesse di college in Florida, e da un episodio che gli capitò in prima persona: una sera tornò a casa e trovò la porta aperta, e si spaventò tantissimo. D’accordo, non è una gran storia, però è utile a capire almeno una parte di quello su cui Scream punta per fare paura: l’idea del killer invisibile, un fantasma che si aggira per casa e potrebbe spuntare da ogni angolo quando meno te lo aspetti, e che è talmente sicuro di sé da permettersi di lasciare segni tangibili del suo passaggio per spaventare ancora di più.

Scream gruppo

Come detto, però, Williamson voleva anche raccontare un’altra storia: quella di come l’horror, e lo slasher in particolare, stesse diventando sempre più uguale a sé stesso, e di come a vent’anni da Halloween di Carpenter quelle idee fossero ormai diventate cliché, scorciatoie creative a cui appoggiarsi per riempire la carenza di idee. Scream è un manifesto dello slasher e un riassunto dei motivi per cui funziona, ma ne è anche una condanna spietata che nasconde un’ambizione ancora più grande, quella non di rivitalizzare il genere ma di ridefinire, trasformarlo, di creare un mondo avanti Scream e uno dopo Scream.

Torniamo alla storia del serial killer di liceali. Come tutti gli slasher che si rispettino, Scream si apre con un trauma che ritorna dal passato: un anno prima degli eventi del film, Maureen Prescott venne violentata e uccisa da un killer che, pare, risponde al nome di Cotton Weary (Liev Schreiber, che tornerà utile al franchise nel capitolo successivo). Un anno dopo, in occasione dell’anniversario del delitto, gli omicidi ricominciano, e in un modo che fa capire come Scream non sia solo un film ma anche un esperimento, un modo per giocare con le regole dell’industria.

Parliamo di questa scena (che purtroppo non si trova intera su YouTube, ma quello che c’è è sufficiente):

l’arcinota e celeberrima scena di apertura di Scream, quella che detta le regole del gioco, una dichiarazione d’intenti che dice “questo film horror parlerà di film horror”. In questo momento però non ci interessa per questo motivo, ma per il fatto che la protagonista è Drew Barrymore, che al tempo era una star e che aveva chiesto personalmente alla produzione il ruolo da protagonista. Purtroppo per lei sopraggiunsero i classici “altri impegni” e Barrymore fu costretta a ritagliarsi una particina, e la soluzione scelta da Williamson e Craven fu quella di piazzarla in apertura, di aprire il film con la loro stella più famosa e farla fuori nel giro di dieci minuti. Non è una scelta da nulla, anzi è un modo per dichiarare la propria (vera o presunta, a giudicare dai sequel) estraneità allo star system e all’appiattimento dell’horror e del cinema tutto sullo star power. Scream ci tiene a essere, fin dalla primissima scena, un film diverso dagli altri; vuole essere ricordato, anche se questo significa ammazzare la bimba di E.T..

La vera star della scena, ovviamente, non è Drew Barrymore ma il killer mascherato che fa i quiz telefonici sui film horror e poi ti ammazza. È qui che si vede che Scream è stato girato da un maestro del genere: il costume dell’assassino è un po’ buffo, la maschera da quattro soldi, le sue telefonate deliziosamente sopra le righe, eppure ogni volta che compare, o sembra comparire, Ghostface fa paura, perché applica alla sua presenza scenica il metodo Michael Myers: non sai mai dov’è, e quindi è sempre con te. A proposito del nome “Ghostface”: gli viene dato da Tatum, il personaggio di Rose McGowan, che come tutti i personaggi del film ricopre un ruolo archetipico (nel suo caso è “l’amica ribelle della protagonista”) e che come tutti i personaggi del film si esprime come se passasse ogni secondo libero a guardare film horror. Tatum è la migliore amica di Sidney Prescott, figlia di Maureen comprensibilmente traumatizzata dagli eventi di un anno prima: a interpretarla è Neve Campbell, una delle tante che non era convinta del film perché era diventata famosa grazie a un altro horror (Giovani streghe) e non voleva replicare così a stretto giro (un altro poco convinto era Craven, che al tempo voleva sperimentare con qualcosa di diverso dall’horror perché, dice, si era stufato della violenza). Sidney è la final girl, la vittima designata del killer e quella che passerà tutto il film ad a) cercare di capire chi è questo tizio mascherato e b) cercare di non farsi ammazzare da questo tizio mascherato, mentre intorno a lei amici e amiche cadono come mosche.

Sidney e Billy

Se per qualche motivo non avete mai visto Scream ma avete visto tutti gli altri slasher del mondo, a questo punto potreste chiedervi: cos’ha di diverso? A parte il citazionismo costante, la consapevolezza di essere un film horror e un gruppo di personaggi che corrispondono a tutti i cliché del genere? La risposta è semplice: un’anima. Scream sarà pure un film autoreferenziale, meta-cinematografico, citazionista e teorico, ma è anche uno slasher con i fiocchi, con una protagonista per la quale è facile fare il tifo, una serie di figure di contorno funzionali ma non abbastanza approfondite da provocare dispiacere quando muoiono male, un paio di personaggi apparentemente secondari ma che nel corso del film hanno uno sviluppo inaspettato che porta chi guarda a investire emotivamente anche in loro (il detective David Arquette e la giornalista Courtney Cox in particolare) e abbastanza tensione e mistero sull’identità del killer e le sue motivazioni da tenere incollati fino alla strepitosa sequenza finale.

Non solo: Scream è anche un’interessante riflessione sull’intrusività dei media e la pornografia del dolore (discorso che verrà approfondito nei sequel), e un horror girato da un tizio molto bravo e capace di girare alcune delle migliori sequenze di paura con protagonista un tizio mascherato dai tempi di Halloween. Che è poi la differenza fondamentale tra il film di Wes Craven e le decine se non centinaia di epigoni che sono usciti negli anni successivi, commedie horror, horror metacinematografici, commedie citazioniste metacinematografiche horror, una valanga di prodotti convinti che il segreto del successo di Scream fosse il fatto che i protagonisti citavano i film di Carpenter e Romero e non che è uno slasher di altissimo livello, che ha provato a mettere in guardia il genere intero contro i rischi della stagnazione e che è stato salutato con entusiasmo, ma forse mai capito del tutto.

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