Rush Hour – Due mine vaganti, il buddy cop sotto steroidi
Rush Hour – Due mine vaganti è una buddy comedy con il volume alzato a mille, e nella sua assurdità è ancora bellissimo (anche se Jackie Chan lo odia)
Jackie Chan odia Rush Hour – Due mine vaganti. In realtà ha scarsa stima di gran parte della sua produzione americana, che ha descritto più volte come “qualcosa che faccio per tirare su i soldi per finanziare i film che voglio fare davvero”, ma il suo fastidio nei confronti del film di Brett Ratner è particolarmente curioso. Innanzitutto perché parliamo del suo primo film hollywoodiano da protagonista, un’occasione che lui stesso ha inseguito per anni e che arrivò grazie al successo internazionale di Terremoto nel Bronx. E poi perché Rush Hour rimane una delle buddy comedy meglio riuscite degli anni Novanta, arrivata un po’ in ritardo rispetto all’esplosione del genere ma capace di rinnovarlo e rinfrescarlo grazie a una buona dose di cattiveria e di steroidi.
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Di più: Rush Hour è così tanto un buddy cop che Roger Ebert si inventò un nuovo termine per definire il genere – che purtroppo si basa su un gioco di parole intraducibile. La parola è “wunza”, che è la traslitterazione modificata di “one’s a…”, cioè “uno è…”: è il modo più semplice per descrivere questi film e la loro caratteristica fondante, e cioè “ci sono due personaggi, uno è [X], l’altro è [Y], dovranno superare le differenze e imparare a lavorare insieme”. Nel caso del film di Brett Ratner, la X di Jackie Chan è Lee, un detective di Hong Kong che vola negli Stati Uniti dopo che la figlia dell’ambasciatore, che è anche una sua ex allieva nella sua scuola di arti marziali, viene rapita; e la Y di Chris Tucker è James Carter, detective dell’LAPD che ama lavorare da solo e non è ben visto dal resto dei colleghi del dipartimento. Lavorare con Lee è la sua punizione per i suoi metodi poco ortodossi e la scarsa stima di cui gode presso i capi: ovviamente i due si scontreranno e pian piano si capiranno e infine trionferanno contro la cattivissima mafia cinese.
Il rapporto tra Lee e Carter, cioè il cuore di Rush Hour – Due mine vaganti, è indicativo più di quanto non lo sia la comunque ragguardevole quantità di esplosioni che punteggiano le quasi due ore di film. Normalmente i “poliziotti diversi” in un buddy cop litigano, si scontrano, si giurano a vicenda di lavorare meglio da soli, poi alla prima occasione buona scoprono che anche l’altro ha qualcosa da offrire e iniziano il processo di avvicinamento. In Rush Hour, Jackie Chan e Chris Tucker se le danno di santa ragione per tutto il film, si inseguono, si menano, si sparano, si minacciano di morte, corrono in giro per la città incuranti del loro lavoro. Non stanno fermi un secondo e ci impiegano tutto il film, invece che solo il primo atto e mezzo, a trovare una quadra e il modo di collaborare attivamente.
È un trucchetto che funziona perché le differenze tra i due non sono solo, come capita spesso, etniche e/o di classe, ma culturali in senso più ampio: Jackie Chan interpreta anche il ruolo dello straniero in terra straniera, il cui spaesamento probabilmente potrebbe reggere il film anche in assenza di Chris Tucker. In un certo senso, Rush Hour è due film in uno: il primo è un buddy cop, il secondo è la versione thriller di Il principe cerca moglie, con una bambina da liberare invece di una principessa da sposare. Ratner abbraccia questa doppia assurdità dando libertà assoluta ai suoi attori, e se Chan la sfrutta soprattutto quando mette in scena le sue coreografie e i suoi “stunt senza stuntman”, Tucker si lascia ancora più andare e libera tutto il suo spirito di improvvisazione e il suo talento per la stand up. Arriva a essere persino eccessivo, con i suoi balletti e le sue faccette; ma forse è proprio quello il suo segreto, e il segreto di tutto Rush Hour – Due mine vaganti: la libertà di lasciarsi andare, fregandosene anche del rischio di apparire ridicoli, e godendosi le esplosioni.