Rogue One e la multiculturalità al cinema fatta bene: non facce diverse ma cinema diversi che convivono

Cinema d'autore europeo e sudamericano, blockbuster cinesi e serie tv, forme audiovisive tutte diverse che convergono in Rogue One grazie al suo cast

Critico e giornalista cinematografico


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Il progetto di avere un cast multiculturale in Guerre Stellari non nasce oggi, è diventata un’esigenza sempre più pressante già a partire dalla nuova trilogia. Però è forse in Rogue One che prende la piega più decisa, e non a caso. Ha una concordanza non da poco l’idea che ribelli da ogni lato della galassia si riuniscano contro l’Impero con il fatto di avere membri del cast di ogni razza. Anche tralasciando i tweet poi cancellati dello sceneggiatore Chris Weitz, in cui affermava che alla fine è la storia di un gruppo multiculturale che si ribella a dei suprematisti bianchi (sottolineando come appositamente tra le fila dell’Impero non ci sia la stessa diversità), è evidente che c’è un piano preciso dietro una così fedele rappresentazione della varietà del nostro mondo.

Ci sono però due maniere di mettere insieme un cast di diverse provenienze.

Uno è il modello “Vorrei cantare assieme a voi” della Coca Cola, cioè affiancare volti differenti, colori differenti e costumi differenti in una specie di patchwork all’insegna della pace e della tolleranza; un altro è fare in modo che ognuno porti un po’ di quel che ha addosso nel film, che cioè lo contamini. Incredibile a dirsi Gareth Edwards è riuscito anche in questa impresa, creando un unico film molto coerente e dalla visione chiara e precisa (un war movie vecchio stampo) che tuttavia ingloba non solo esseri umani di colori e tratti somatici diversi, ma anche le idee dei diversi mondi del cinema da cui provengono.

Lo si nota subito in una delle prime apparizioni di Donnie Yen, artista marziale formidabile, stella del cinema cinese che ha portato in scena in tre film uno dei maestri più venerati del mondo del kung fu (Ip Man, nei tre film omonimi). A differenza di quel che si vede con Iko Uwais e YaYan Ruhian in Il Risveglio della Forza (SPOILER: è come se non ci fossero, non mostrano nulla delle cose incredibili che sanno fare), Donnie Yen ha un paio di occasioni di portare uno scampolo minuscolo del miglior cinema cinese in questa megaproduzione. Edwards lo riprende come si deve, dalla testa ai piedi, monta poco e lascia che i suoi movimenti siano i protagonisti (l’opposto dello stile hollywoodiano). Ed è un momento liberatorio.

Non solo, a lui viene affiancato Jiang Wen, un vero e autentico genio del cinema purtroppo poco conosciuto in occidente. Basterebbe anche solo il suo ultimo furioso e barocco film come regista, sceneggiatore e attore protagonista, C’era una volta a Shanghai (Gone with the bullets), per dimostrare che testa pazzesca sia. Lui è il ponte migliore attraversabile questi anni tra quelli che collegano la tradizione spettacolare fuori dalla grazia di Dio di Hong Kong con il cinema d’autore cinese. Un mostro autentico, qui al servizio della trama.

Ma è qualcosa in fondo che capita anche con due cocchi del cinema d’autore. Il danese Mads Mikkelsen, uno che ha iniziato assieme a Nicolas Winding Refn (con Pusher - L’inizio) che ha lavorato con Susanne Bier, Thomas Vinteberg e la parte più nota del cinema autoriale danese, prima (ma anche dopo) di interpretare il villain in Casino Royale e lanciare la propria carriera hollywoodiana. Un volto da cinema festivaliero che ha tutto un altro peso specifico nell’inquadratura, che porta su di sé altre tecniche e altri mondi del cinema.
E poi Diego Luna, quello di Y tu mama tambien con Alfonso Cuaron, formato nel meglio del cinema sudamericano, il più dinamico, vivace, potente e innovativo dei nostri anni. Qui lui è coprotagonista a tutti gli effetti con un’audacia e una mancanza di politically correctness che fa pensare proprio a quel modo meno ingessato di raccontare storie.

Infine se Forest Whitaker è un afroamericano perfettamente inserito nella macchina filmica hollywoodiana, Riz Ahmed è l’ultimo tassello del puzzle, ovvero il mondo arabo. Anche lui proviene da dentro l’industria (ma britannica), visto in Four Lions prima di tutto e poi in Nightcrawler (e recentemente Jason Bourne). Faccia e fisico deboli, remissivi e spaventati in The Night Of ci mette tutti gli 8 episodi della serie a ribaltare questo stereotipo con una trasformazione che, se davvero ce ne fosse stato bisogno, poteva essere la conferma migliore per la Disney di aver fatto la scelta giusta.

Questa è la multiculturalità cinematografica fatta bene. Non facce diverse ma persone che vengono da mondi del cinema diversi che possono mettere a frutto la loro diversità.

Star Wars Anthology - Rogue One

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