Rogue One: l'attore nell'epoca della sua riproducibilità tecnica

Cosa comporta la "risurrezione" di Peter Cushing in Rogue One: a Star Wars Story?

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Nella splendida serie di Netflix Bojack Horseman a un certo punto il protagonista, un cavallo/attore depresso e alcolizzato, riesce a conquistare il ruolo della sua vita impersonando il famosissimo purosangue Secretariat in un biopic ad alto budget. A metà riprese, però, Bojack soffre di un crollo nervoso e scappa in New Mexico alla ricerca di una ragazza di cui si era invaghito vent’anni prima. Al suo ritorno è convinto di dover pagare una tremenda penale per aver interrotto la lavorazione del film ma, con sua enorme sorpresa, scopre che il regista (una balena che ripete sempre “siamo a Hollywood, non stiamo girando Casablanca!”) e il produttore (una tartaruga ebrea parodia dei fratelli Weinstein) hanno completato l’opera ricreando l’equino in CGI. Il film sarà un grande successo e finirà addirittura candidato agli Oscar con Bojack confuso sul suo effettivo ruolo all’interno della grande macchina degli studios.

La vicenda ovviamente esagera a fini comici il metodo di lavoro del cinema moderno ma il rapporto degli attori con le tecnologie digitali sembra davvero essere arrivato a un punto di svolta. L’ossessione hollywoodiana per l’eternità delle sue icone ha radici lontane: se nel 1994 Brandon Lee fu “risuscitato” per completare le ultime scene del Corvo, recentemente abbiamo visto sullo schermo le versioni ringiovanite di Brad Pitt in Benjamin Button, di Jeff Bridges in Tron: Leacy, di Michael Douglas in Ant-Man, di Robert Downey jr. in Captain America: Civil War e, stando alle indiscrezioni, pare che Martin Scorsese voglia Al Pacino, Robert De Niro e Joe Pesci trentenni per il suo prossimo film. Se nel Corvo l’uso degli effetti speciali fu necessario vista la tragica scomparsa del giovane attore mentre in tutti gli altri film citati si tratta di scelte registiche fatte con interpreti vivi e consenzienti, con Rogue One: a Star Wars Story l’approccio cambia radicalmente. Il ritorno del Gran Moff Tarkin di Peter Cushing era nell’aria da almeno un anno ma tutti si aspettavano i soliti trucchi registici, qualche inquadratura di spalle, magari un paio di battute campionate usando vecchie registrazioni, al limite un cammeo di pochi secondi creato montando il viso dell’attore morto nel 1994 su una comparsa, insomma, qualcosa di simile al tributo dedicato a Paul Walker in Fast & Furious 7.

Gareth Edwards e il suo team, invece, sono stati molto più ambiziosi: Tarkin passa tantissimo tempo sullo schermo e soprattutto è un personaggio nel senso più pieno del termine, parla, interagisce, recita.

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Disney e Industrial Light & Magic hanno mantenuto il massimo riserbo sulle tecniche utilizzate per “riportare in vita” Cushing: se escludiamo la magia nera le ipotesi più accreditate prevedono l’uso di un attore simile al defunto per forma fisica e viso (Guy Henry) su cui, tramite il classico motion capture, i negromanti californiani hanno montato le fattezze digitali del caratterista inglese. Com’è naturale la produzione ha ottenuto il permesso degli eredi di Cushing e, stando ai soliti rumour, Joyce Broughton, l’ex assistente dell’attore, avrebbe visto le scene in anticipo dando pure il suo consenso personale.

Se le questioni legali connesse ai diritti d’immagine si possono risolvere facilmente (o quantomeno siamo certi che il plotone di avvocati d’assalto Disney non avranno enormi problemi) il groviglio etico rimane complesso: Kristy Puchko, per esempio, spiega che “certo, le fondazioni possono dare l’ok e, magari, nel caso di Cushing possiamo addirittura pensare che essendo apparso in altri film di Star Wars avrebbe acconsentito pure per questo. Possiamo addirittura considerarla [l’operazione] onesto fan service. Ma rimane il fatto che Cushing non ha potuto dire di no.”

Peter Cushing non è il primo artista ad aver subito una “resurrezione” digitale intrusiva: Tupac, Elvis, Michael Jackson e Frank Sinatra si sono esibiti sotto forma di ologramma durante vari spettacoli, tuttavia si trattava di vecchie interpretazioni rielaborate per cui, al limite, ci si potrebbe chiedere quanto l’opera artistica sia stata rispettata. Nel caso di Rogue One, invece, il Gran Moff Tarkin contribuisce a creare qualcosa di nuovo, di inedito, contribuisce alla riuscita del film non ripescando filmati d’archivio.

Come appassionati di cinema dobbiamo chiederci quanto avanti ci si può spingere, un nuovo film con James Dean avrebbe la potenza di Gioventù Bruciata? Dove finisce l’autorialità del regista (e della produzione) e inizia l’indipendenza degli attori? Il Peter Cushing di Rogue One è una marionetta, un dettagliatissimo manichino che si può muovere alla perfezione, dalla camminata alla larghezza di ogni singolo poro della cute, tutte le espressioni, anche le più minimali, si possono ritoccare, perfezionare, rivedere all’infinito, ma ha davvero un senso? Marlon Brando studiava ogni ruolo con una diligenza quasi ossessiva, arrivando ai grumi di cotone in bocca per simulare al meglio il ghigno di Don Vito Corleone, Jack Nicholson passò qualche settimana in un manicomio per prepararsi a Qualcuno volò sul nido del Cuculo o, per stare su performance più recenti, rimangono indimenticabili le prove di Christian Bale ne L’Uomo senza Sonno e Di Caprio in The Revenant. L’emozione della sfida tecnologica non può e non deve farci dimenticare che il cinema è prima di tutto tre cose piuttosto semplici: inquadratura, scrittura e interpretazione. Tutto il resto sono aggiunte che rendono sempre più bella, appagante e stupefacente la magia del grande schermo.

In un famosissimo saggio intitolato “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” il filosofo tedesco Walter Benjamin spiegava come le arti visive, perdendo grazie a libri, fotografie e video la loro unicità finivano per trasformarsi da esperienza emozionale in un mero prodotto, ennesimo mattone di una società che consuma la cultura come cibo o bibite gassate. Lo spettatore, insomma, prima diventa pubblico pagante e, infine, mero cliente di un’industria che annulla ogni guizzo di genio. Benjamin completava le sue riflessioni nell’anno 1936 ma, oggi, appaiono tanto più inquietanti quanto più pure la performance attoriale, la forma d’arte fisica, umana, per eccellenza rischia di trasformarsi in materia per ingegneri, programmatori e tecnici.

Cosa ne pensate? Ditecelo nei commenti!

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