Rocky, l’epitome del sogno americano

Rocky è una perfetta rappresentazione del sogno americano, e non solo per quello che racconta nel film

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In attesa dell’uscita di Creed 3, il primo film della saga di Rocky Balboa senza Sylvester Stallone, facciamo un ripasso dell’intero franchise. Oggi partiamo, ovviamente, con Rocky

Nel 1774 John Murray, inglese e governatore della Virginia, disse degli americani che “se raggiungessero il Paradiso, non avrebbero problemi ad abbandonarlo se sentissero che più a ovest c’è un posto ancora migliore”. Meno di un secolo dopo, avendo finito lo spazio per espandersi a ovest, gli Stati Uniti venivano descritti, da chi ci arrivava da migrante pieno di speranze, come “un Paese privo di dispotismi, ordini privilegiati e monopoli [nel quale] chiunque può viaggiare e stabilirsi dove preferisce […] Dove contano solo la fedeltà e il merito”. In questo fondamentale saggio del 1931, James Truslow Adams definiva per la prima volta in quanto tale il Sogno Americano come “[il sogno] di una terra nella quale la vita è migliore e più ricca e più piena, con un’opportunità per chiunque, proporzionata alle sua capacità. Non è un sogno fatto solo di macchine e stipendi da sogno, ma di un ordine sociale nel quale ogni uomo e ogni donna può raggiungere il suo massimo, ed essere riconosciuto dagli altri per quello che vale, non le circostanze fortuite della sua nascita”. Nel 1976, infine, Michael Sylvester Gardenzio “Enzio” “Sly” “The Italian Stallion” Stallone riassunse tutto questo paragrafo in un film intitolato Rocky.

Rocky è per certi versi l’epitome del sogno americano, e per altri addirittura un superamento, o quantomeno un perfezionamento. E ha cominciato a esserlo prima ancora di venire girato, quando era solo un’idea nell’irrequieta (e assai preoccupata) mente dell’allora giovane Sly. La storia del making of di Rocky è ormai leggenda e se la conoscete potete saltare questo paragrafo (o se volete ripassarla qui c’è un ottimo riassunto), ma in breve: Stallone al tempo viveva in una casa che non aveva soldi per pagare ed era a un passo dallo sfratto e dal rinunciare al suo sogno di attore. Riuscì a convincere Irwin Winkler a dargli un’ultima possibilità e nel giro di tre giorni produsse il primo script di Rocky.

La versione originale di Sly era ragionevolmente diversa da quella che arrivò poi sul set, più cupa, con un finale in minore forse sperimentale, ma con un decimo dell’impatto di quello che poi è stato girato. Ma aveva la scintilla, la fame, veniva chiaramente dalla penna di qualcuno che non solo aveva talento, ma aveva anche riversato tutto quel che rimaneva del suo cuore nel progetto – e aveva di fatto scritto un film autobiografico, nel quale la boxe sostituiva lo scrivere un film sulla boxe. Stallone fu così granitico, così pervicacemente attaccato a un paio di punti fissi dai quali non si sarebbe mai schiodato, da convincere la produzione a dargli un budget di un milione di dollari e soprattutto il ruolo da protagonista: l’impressione di Winkler era che il vero talento di Sly fosse nella scrittura, ma lui si rifiutava di affidare il personaggio di Robert “Rocky” Balboa a chiunque altro, non importa quanto bravo.

Nonostante fosse appena trentenne, Stallone si sentiva già con un piede fuori dalla porta, e non chiedeva altro che un’ultima occasione per dimostrare quel talento che, per colpe non sue, non era fin lì riuscito a esprimere. Non è proprio questo il sogno americano? Se sei bravo, se hai l’idea giusta, se te lo meriti prima o poi la tua chance arriverà. Ma il sogno americano non è perfetto: c’è per esempio chi l’ha criticato per essere fondamentalmente bianco, oppure un modo come un altro per perpetrare le diseguaglianze di classe, perché se è vero che in teoria le porte del Paradiso sono aperte a chiunque, nella pratica la declinazione moderna del sogno americano è riservata a chi ha almeno una base di partenza, qualcosa da investire e da rischiare, e continua a escludere chi non ha nulla – e in questo non c’è niente di meritocratico o egualitario.

Stallone queste cose le sapeva, e le stava provando sulla sua pelle mentre faceva l’impossibile per girare il suo film: non è un caso che Rocky Balboa si esprima in un inglese stentato e pesantemente accentato, a sottolineare come uno dei motivi del suo scarso successo sia il modo in cui viene visto e percepito prima ancora che abbia modo di dimostrare qualcosa. Se quindi la vita reale lo costringeva a confrontarsi con i lati oscuri del sogno americano, Rocky ne è una sorta di idealizzazione, o meglio di perfezionamento, di ideale a cui tendere. L’America di Rocky è un luogo dove il ricco capitalista oppressore è nero e l’oppresso è bianco. È un luogo di disuguaglianze e di stereotipi, ma è anche un luogo nel quale un immigrato italiano che si allena prendendo a pugni dei prosciutti può diventare il pugile più famoso del Paese semplicemente perché è bravo.

In Rocky la svolta, narrativa e di carriera, è anche il momento più surreale e quasi magico di un film che per il resto è un capolavoro di semplicità e sobrietà. Apollo Creed non solo il ricco capitalista, è anche l’incarnazione stessa del sogno americano: trovatosi senza avversario decide che il modo migliore per recuperare la situazione è di dare una possibilità a un signor nessuno, un atleta locale senza fama né una vera carriera; siamo ai confini del realismo magico, di Charlie che trova il biglietto dorato nella tavoletta di cioccolato. È quello che dovrebbe fare il sogno americano se fosse davvero un sogno e non solo un’altra sovrastruttura sociale: darti sempre e comunque, prima o poi, anche nel modo più casuale, una possibilità, una sola – perché se te lo meriti è tutto quello che ti serve.

È interessante in questo senso il confronto tra il finale del film e quello che aveva inizialmente scritto Stallone, perché dice molto sulla differenza tra il sogno americano in teoria (quello di Rocky) e in pratica (quello di Sly). Nella prima versione, Rocky non riesce a “go the distance”, non rimane in piedi fino all’ultimo round per venire dichiarato sconfitto solo dai giudici e non dal ring. Al contrario, durante il combattimento si rende conto che una vittoria lo riempirebbe di soldi e fama che non sarebbe in grado di gestire, e getta quindi la proverbiale spugna. Non ci vuole grande fantasia per vederci un modo per mettere le mani avanti, un atteggiamento quasi da volpe e uva: “se non dovesse andare bene, almeno mi sarò risparmiato un sacco di preoccupazioni” è il messaggio. Sarebbe stato un finale perfetto solo se il film si fosse rivelato un flop.

Winkler chiese invece a Stallone di riscrivere quel finale, di renderlo più digeribile e meno amaro. Una vittoria di Rocky sarebbe stata la soluzione più logica, e avrebbe reso Rocky un film molto più banale di quello che è. Sly invece sceglie la prudenza: se lotti con tutte le tue forze, se hai l’occhio della tigre insomma, molto probabilmente non trionferai comunque, perché certe distanze sono ancora incolmabili, ma almeno sopravviverai, arriverai al gong ancora in piedi, e con ancora tanta voglia di lottare. È la differenza tra il sentirsi arrivati e il sapere di potercela fare, ma di avere ancora parecchia strada davanti. Visto com’è proseguita la carriera di Sylvester Stallone, e dove sta oggi, è chiaro che ha imparato la sua stessa lezione.

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