Rocky è Stallone, Stallone è Rocky

Una carriera definita e raccontata da una saga. Rocky non è solo un franchise ma la messa in scena della vita di Stallone

Critico e giornalista cinematografico


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Da quando nel 1977 Sylvester Stallone cambiava la sua vita prendendola per le redini con un film su un uomo che decide di cambiare la propria vita prendendola per le redini, lui e Rocky sono rimasti legatissimi. Gli alti della vera persona si sono tradotti negli alti del personaggio e i suoi bassi sono diventati i bassi del vero Stallone. Rocky è l’opera della vita di Stallone nel senso stretto, nel senso che racconta effettivamente la sua vita, dietro metafora. Rocky è sempre stato lì a ricordare a Stallone cosa sia il cinema per lui e cosa leghi quella visione cinematografica al pubblico.

In pochi hanno compreso la potenza cinematografica di Stallone, il suo essere un vero grande uomo di cinema. Più che altro attore, ha sempre messo mano alle sceneggiature dei suoi film e quando lo ha fatto così pesantemente da essere accreditato si trattava di script inesorabili. Regista molto barocco e modaiolo (ma ha importato lui l’estetica da videoclip nel cinema mainstream), Stallone è uno scrittore sopraffino e il fatto che sia lui a scrivere Creed II, cambia totalmente l’interesse verso questa saga. Finalmente.

Rocky (scritto da Sylvester Stallone) è stato uno dei film più importanti degli anni ‘70 americani, una delle matrici del cinema hollywoodiano moderno, la sua forma ha plasmato il cinema sportivo da lì in poi e a tutt’oggi ne è il modello aureo (presentazione, sconfitta, possibilità di ascesa sociale e sentimentale collegata alla prestazione sportiva, training montage, grande incontro finale). Rocky è diventato non solo un’icona per l’idea americana di un’indomabile spirito nazionale alimentato dall’immigrazione (“lo stallone italiano”) ma anche il simbolo di come il cinema trovi sempre dentro di sé le armi per risorgere. A quel film magistrale diretto da John G. Avildsen si rifanno infatti non solo i film sportivi ma tutti quelli che raccontano come un uomo possa migliorare attraverso la fatica (si veda Il Discorso del Re, praticamente Rocky con la logopedia al posto del pugilato, o Whiplash, Rocky con la batteria).

Da quel momento in poi Stallone è tornato ripetutamente a Rocky. Ci è tornato pochi anni dopo con Rocky II, quando la sua carriera da autore indipendente e molto serio non riusciva a decollare (e raccontava di come Rocky non riuscisse a trovarsi a suo agio nel mondo del pugilato fino a dover ripetere l’incontro del primo film); ci è tornato di nuovo qualche anno dopo con Rocky III quando tutto era cambiato, quando aveva avuto successo, era a proprio agio con il suo status ma temeva di aver perso la sua spinta iniziale, temeva di stare perdendo la voglia di fare cinema d’autore come sognava (e l’ha fatto raccontando di Rocky, ricco e famoso, che torna alla palestra di periferia per ritrovare gli occhi della tigre e dimostrare a se stesso di essere sempre quello di una volta).

È poi tornato a Rocky di nuovo all’apice del suo potere hollywoodiano, quando era una star mondiale (per raccontare di Rocky, star mondiale che va in trasferta e risolve la guerra fredda) in un film, Rocky IV, che è un gioiello di scrittura e regia, così essenziale da durare solo 91 minuti.
E poi ancora negli anni bui, i ‘90, quando la sua stella era in calo e i film incassavano sempre meno ha raccontato di Rocky che perde tutto e torna povero con un film venuto non bene che ha incassato pochissimo, acuendo il disamore e la china discendente. È infine tornato a Rocky nel 2006 quando voleva lasciare il cinema, era arrivato a fare film solo per il circuito home video e viveva di ricordi, e di nuovo anche Rocky viveva solo di ricordi in quel film, con un figlio lontano, Adriana morta e un ristorante in cui rivangare il passato. Con quel film ha sparato la sua ultima cartuccia, è tornato a fare Rocky a 60 anni, raccontando di Rocky che a 60 anni torna a fare il pugile per sparare l’ultima cartuccia. Una scommessa assurda e grottesca, scritta e diretta da lui, che ha funzionato. Rocky l’ha rimesso in pista.

Da lì è partita la seconda carriera di Stallone, quella da icona di Hollywood, mito chiamato a fare piccoli ruoli ovunque (I Guardiani della Galassia vol. II) e protagonista di franchise come I Mercenari, un attore di nuovo da uno o due film l’anno di buon incasso. Poi spalla d’onore in Creed e adesso, finalmente, di nuovo sceneggiatore di un film in cui è presente Rocky, il film che rivede la mitologia di Rocky IV, racconta che fine abbia fatto il nemico per antonomasia, Ivan Drago, e chiude la parabola della sconfitta.

Perché se c’è una cosa che alla fine racconta da sempre Rocky (e che in un certo senso anche Creed era riuscito a fare) è il potere della sconfitta. È il tema centrale del cinema di Stallone, l’idea che perdere è un momento della vita, doloroso e necessario e che non c’è vittoria senza prima una sconfitta. Drago è il più grande sconfitto della saga di Rocky. Non empatizziamo con Clubber Lang (mr. T), non empatizziamo con Tommy (Rocky V), ma con la faccia distrutta e disperata di Drago alla fine dell’incontro, ingranaggio di un sistema che lo ha plasmato, drogato, indottrinato, frustato e costretto a vincere senza capire il valore della sconfitta.

A lui è dedicato Creed II.

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