Rocky Balboa, morte e resurrezione (ennesima e definitiva)

Rocky Balboa è l’ultimo limite oltre il quale il pugile di Sylvester Stallone non si spingerà più, ed è un addio perfetto

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In attesa dell’uscita di Creed 3, il primo film della saga di Rocky Balboa senza Sylvester Stallone, facciamo un ripasso dell’intero franchise. Dopo la pausa natalizia è il momento di Rocky Balboa

Intorno al minuto 100 di Rocky Balboa, sesto film del franchise multimegamilionario creato letteralmente dal nulla da Sylvester Stallone, il pugile eponimo sferra quello che sarà il suo ultimo pugno ufficiale su un ring. Detto pugno arriva al termine di un incontro non agonistico, un’esibizione a Las Vegas organizzata per motivi che con Rocky hanno poco a che vedere; non è un pugno che vale un titolo, ma è un pugno simbolico e dimostrativo, l’ultimo addio di Rocky Balboa al suo pubblico dove “il suo pubblico” coincide ormai con il mondo. Dopo quel pugno, non vedremo mai più Sylvester Stallone su un ring nei panni dell’atleta Rocky Balboa; lo vedremo allenare e passare i guantoni a una nuova generazione, ma questo è un discorso che affronteremo settimana prossima. Ora siamo qui a parlare di Rocky Balboa, l’addio a Rocky e, un po’ a sorpresa, uno dei migliori film dell’intero franchise.

“Un po’ a sorpresa” perché nel 2006 l’unico a crederci era probabilmente Sylvester Stallone, che una dozzina di anni fa definì Rocky Vil suo più grande rimpianto” e “un film fatto per avidità” e che voleva quindi a tutti i costi un’occasione per rettificare l’errore, e dare a Rocky l’addio che si meritava. In più, allargando lo sguardo al resto della sua carriera, Stallone non si era mai ripreso dai flop di La vendetta di Carter e Driven, e nel 2006 era in cerca di un modo per tornare rilevante: la sua prima reazione fu quella di rivolgersi al suo amico più fidato (incidentalmente, due anni dopo fece una telefonata a un altro amico altrettanto fidato, e uscì anche John Rambo).

Come si fa però a riprendere le fila di un discorso vecchio di quindici anni, soprattutto dopo un film che metteva in chiaro come Rocky avesse ormai subito danni irreversibili al cervello e rischiasse la morte a ogni combattimento? Be’, innanzitutto si fa ignorando quest’ultimo passaggio: la malattia di Rocky sparisce dai radar, e nonostante i tentativi di Stallone di giustificare questa scelta con supercazzole mediche è chiaro che la volontà è quella di cancellare le cose più brutte di Rocky V e di raccontare una storia che è, di fatto, il vero sequel di Rocky IV.

Come in Rocky V, anche qui Rocky ha perso tutto; ma dove lì la questione era soprattutto finanziaria e un po’ pretestuosa, Rocky Balboa si apre con la straziante immagine di Stallone seduto su una seggiolina al cimitero, di fronte alla tomba di Adriana. Fin da subito il film mette una cosa in chiaro: non importa che Rocky stia bene, si stia godendo la pensione e il suo nuovo ristorante e, al netto di qualche problema di comunicazione con il figlio, abbia una vita tutto sommato felice. Il Rocky del sesto film è un uomo distrutto a un livello profondo ed esistenziale, che ha perso non solo (o non tanto) la sua ragione di vita ma la persona che lo ha reso quello che è, ha perso una parte irrinunciabile della sua stessa identità.

Se nel corso di queste settimane ci avete seguito in questa riscoperta andando a rivedervi l’intera saga di Rocky, non c’è bisogno di spiegarvi quanto l’idea di Rocky senza Adriana sia inconcepibile, e quanto quindi il personaggio di Stallone sia irrimediabilmente rotto a un livello troppo profondo perché si possa tornare indietro. È una situazione talmente estrema che si perdona tutto al film, anche il fatto che l’idea dietro all’ennesimo Ultimo Grande Combattimento di Rocky sia suggerita da una simulazione al computer, e sia talmente assurda da richiedere dosi da cavallo di sospensione dell’incredulità.

D’altra parte Rocky è sempre stato un personaggio assurdo, a modo suo, un pugile che vince prima di tutto grazie alla sua sovrannaturale capacità di incassare qualsiasi cosa e non cascare a terra mai. E allora che problema c’è, dev’essersi detto Stallone, a farlo tornare sul ring a sessant’anni suonati a scontrarsi contro l’attuale campione del mondo dei pesi massimi, uno che non ha mai perso un incontro in vita sua e i cui combattimenti non durano mai più di tre riprese perché colpisce troppo forte? C’è in questa scelta, come in gran parte della carriera da autore di Stallone e nella saga di Rocky in particolare, un tocco fortemente autobiografico, una sfida del vecchio dato ormai per pensionato a tutti questi giovani scavezzacollo che non sanno cosa significhi soffrire per vincere; un tocco che, per fortuna, si ferma poco prima di diventare il rant di un anziano che urla contro le nuvole, e si trasforma invece in un messaggio di saggezza, forza e coraggio, quasi messianico.

Funziona, Rocky Balboa, perché Stallone non ignora il passare degli anni, semplicemente ci dice che non può e non deve diventare una scusa per lasciarsi andare; che le persone hanno qualcosa da dire finché non smettono di averlo, non finché non compiono sessant’anni. Rocky è indiscutibilmente meno forte (meno allenato, meno scattante, meno rapido, anche meno tecnico) di Mason Dixon, ma questa non è una giustificazione: è sempre stato il messaggio di tutto il franchise, e diventa ancora più rilevante in questo film nel quale Rocky avrebbe tutto il diritto di lasciarsi andare e di ammettere che il suo tempo è passato.

Tutto questo discorso non si limita a informare la sceneggiatura, ma è stato parte integrante anche della lavorazione, ed è alla base di uno dei più grandi successi di Rocky Balboa, quello puramente estetico. Gran parte dell’incontro finale è girato in alta definizione a 24p, in contrasto con il resto del film che è girato in pellicola, e le macchine da presa sono posizionate come lo sarebbero durante un vero incontro di boxe trasmesso in TV; il risultato è un look non tanto “realistico”, quanto piuttosto indistinguibile da come si vedeva lo sport in TV nel 2006, che amplifica quella sensazione di essere “lì” che ha sempre fatto la fortuna del franchise. Aggiungeteci che Stallone e Antonio Tarver si tirano davvero dei gran pugni, e il combattimento in generale è meno coreografato del solito e più simile a un vero combattimento (a detta di chi lo sport lo pratica), e otterrete una mezz’ora finale che da sola cancella ogni magagna dei sessanta minuti precedenti, ed eleva Rocky Balboa al titolo di “uno dei migliori film del franchise”. Era l’addio che Rocky si meritava, e non c’è nulla che lo dimostri meglio dei titoli di coda del film. Preparate i fazzoletti.

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