Robin Hood – Un uomo in calzamaglia e le spalle dei giganti

Robin Hood – Un uomo in calzamaglia ebbe l’unica sfortuna di arrivare dopo una notevole sfilza di capolavori

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Robin Hood – Un uomo in calzamaglia compie trent’anni

Robin Hood – Un uomo in calzamaglia ha un’unica, grande sfortuna che ne ha segnato e ne segnerà per sempre il destino di cult solo sfiorato: quella di arrivare dopo una sfilza di capolavori che sono tra le migliori commedie mai uscite al cinema, e di doversi quindi confrontare con dei giganti di fronte ai quali è quasi impossibile non venire ridimensionati. Se fosse stato il film di debutto di un giovane rampante esordiente, o persino se fosse uscito prima di Balle spaziali (il vero film divisivo di Mel Brooks, con una fazione che lo ritiene ancora all’altezza dei vari Mezzogiorno e mezzo di fuoco e La pazza storia del mondo e un’altra che invece pensa che stia almeno un gradino sotto), sarebbe stato accolto meglio dalla critica e dal pubblico, e sarebbe ricordato per quello che è: un film molto divertente, nel quale almeno l’80% delle battute vanno a segno.

Invece è ricordato con formule vaghe e un po’ dubitative tipo “sì, OK, ma…” oppure con giudizi più espliciti e tranchant, che di solito sono una variazione sul tema “non fa ridere come quelli prima”. Perché poi il punto è sempre quello: è un film di Mel Brooks, e lo si valuta in base a quanto fa ridere, cioè un’operazione all’apparenza semplice ma in realtà complicatissima perché altamente soggettiva e sfuggente. Come si stabilisce se una cosa faccia più o meno ridere? Ci si basa sui numeri assoluti?

“Questo film ha incassato questi milioni di dollari, quindi è stato visto da queste migliaia di persone, quindi queste migliaia di persone hanno riso”. Ma un film che, su un campione di un milione di persone, ne fa ridere novecentonovantanovemilanovecentonovantanove e ne lascia una impassibile, possiamo ancora dire che fa ridere? Perché le valutazioni di una massa devono valere di più di quelle di un singolo? Esiste un modo per misurare scientificamente quanto un film faccia ridere?

Si può, certo, riflettere sui meccanismi della comicità e perché siano più efficaci in Frankenstein Jr. rispetto a Robin Hood – Un uomo in calzamaglia. Per esempio: il secondo si basa, molto più spesso del primo, su battute e gag fisiche prevedibili, che vengono “chiamate” qualche secondo prima dallo sviluppo della scena. L’ispettore Kemp di Frankenstein Jr. fa ridere perché ha una voce imprevedibile, si muove in modo inaspettato e sfrutta questa sua capacità per fare cose altrettanto inaspettate (si veda per esempio la scena delle freccette). Al contrario, quando Marion e Brutilde (Broomhilda in originale, e infatti gira sempre con una scopa sottobraccio: questo fa ridere) chiamano i loro cavalli, e vediamo la prima che si libra gentilmente in aria prima di atterrare con eleganza sul dorso dell’animale, già sappiamo cosa succederà alla seconda: a quel punto si tratta solo di aspettare con pazienza che la gag ci colpisca, ma sappiamo già quale sarà.

Non stiamo ovviamente dicendo che Robin Hood – Un uomo in calzamaglia sia, per usare un’espressione tecnica, tutto così – né che i vecchi film di Mel Brooks fossero privi di momenti scontati e telefonati. È una questione di proporzioni: troppo spesso il film su Robin di Loxley punta sulla risata facile e rassicurante, e anche su un citazionismo un po’ troppo fine a sé stesso (per esempio, il richiamo a Mamma, ho perso l’aereo fa sorridere, ma non ha alcun senso se non quello di citare un altro film famoso per strizzare l’occhio a chi guarda – in pratica il metodo-Shrek). E ovviamente c’è il fatto che stiamo parlando del decimo lungometraggio della carriera di Mel Brooks: a un certo punto diventa impossibile non ripetersi qui e là, anche solo per distrazione.

Quando però funziona, Robin Hood – Un uomo in calzamaglia non ha nulla da invidiare ai suoi illustri fratelli maggiori. Rispetto a Balle spaziali e anche a Mezzogiorno e mezzo di fuoco, il film ricalca (relativamente) più alla lettera il modello a cui si ispira e del quale fa la parodia, cioè quel Robin Hood – Principe dei ladri rispetto al quale Loxley è superiore perché “so fare l’accento inglese” (o se preferite la versione italiana, perché “io non sono uno che balla con i lupi”). È un film più dritto, più rispettoso della natura avventurosa della vicenda di Robin Hood; ed è di conseguenza meno comico e con un tasso di azione superiore alla media del regista.

Ma è eccezionale nel prendere di mira certi aspetti del film di Kevin Reynolds e certa retorica eroica da film di cappa e spada. Ha persino qualcosa del Robin Hood della Disney, in particolare nell’immancabile scena del torneo di tiro con l’arco. E ovviamente, essendo ambientato in Inghilterra e interpretato da inglesi, ricorda a più riprese i Monty Python, rispetto ai quali soffre però del fatto di avere un umorismo spesso cronologicamente connotato, e quindi invecchiato peggio delle sublimi assurdità del gruppo inglese. Ma basterebbero i numeri musicali per elevarlo al di sopra di ogni pessimo film comico uscito negli ultimi cupi anni nei quali sembra che a Hollywood abbiano disimparato come si fa a far ridere.

Un’ultima nota, anche questa riciclata da cose già dette per i precedenti film di Mel Brooks, va riservata alla localizzazione e doppiaggio italiani: come per Frankenstein Jr., la traduzione anche delle battute più complicate è di livello altissimo (anche quando si tratta di trasformare un dattero in un fico per far dire allo sceriffo di Rottingham “be’, più fico di me si muore!”), e l’uso dell’accento romano per il principe Giovanni è una scelta rischiosa ma che paga con gli interessi.

C’è un motivo se Robin Hood – Un uomo in calzamaglia è stato per anni uno dei film più trasmessi nelle torride serate estive con i palinsesti vuoti e desolati: in italiano fa, a tratti, ancora più ridere che in originale, e se il film di per sé non è il migliore di Mel Brooks, il lavoro di localizzazione arriva quasi a fare concorrenza a quello, comunque intoccabile, di Frankenstein Jr. Se non lo amate quanto i precedenti di Brooks, provate a dargli una possibilità per i suoi trent’anni, e se ancora non vi convince non fategliene una colpa: non è facile vivere sulle spalle dei giganti.

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