Robin Hood – Principe dei ladri, altro che allegri compagni: è una reinterpretazione cupissima e violenta della leggenda

Robin Hood – Principe dei ladri è una reinterpretazione cupissima e violenta della leggenda di quel tizio che rubava ai ricchi per dare ai poveri.

Condividi
Robin Hood – Principe dei ladri compie trent’anni. Lo trovate su Prime Video

“Robin Hood e i suoi allegri compagni”. Così vennero battezzati nel 1500 circa, così li chiama da allora il folklore, e così li hanno raccontati Errol Flynn, Walt Disney e persino i film della Hammer. Un gruppo di furfanti dal cuore d’oro che si oppone alla tirannia monarchica e ruba ai ricchi per dare ai poveri, guidati da un avventuriero dalle origini ignote, il miglior spadaccino e arciere d’Inghilterra che mette i suoi talenti al servizio del popolo, per riportare la felicità in una terra squassata dalle ineguaglianze e oppressa dalle autorità. Ed è vero che “merry” o “merrie” era un termine con il quale si indicavano genericamente tutte le compagnie di ventura dell’epoca, e non aveva necessariamente la stessa accezione di allegria e positività che porta adesso; ma è anche vero che il ritratto di Robin Hood, nella storia della cultura del Novecento, è sempre stato macchiato di positività, voglia di vivere, ottimismo. Almeno fino a quando, trent’anni fa, lo sceneggiatore inglese Pen Densham ebbe un’idea brillante e sovversiva, e scrisse Robin Hood – Principe dei ladri.

Se la scrittura di Robin Hood – Principe dei ladri fu un’operazione tutto sommato semplice, la produzione fu un pasticcio di quelli che solo gli anni Novanta. Sul finire degli anni Ottanta Pen Densham, inglese, decise di provare a riscrivere la vicenda di Robin Hood modificando il personaggio, e di conseguenza il mood dell’intera storia. Invece dell’avventuriero-supereroe sbucato dal nulla, Robin Hood diventa nella sua visione un ricco viziato che ha una sorta di conversione spirituale durante la sua prigionia a Gerusalemme, dov’è stato catturato durante una crociata. La storia finita su schermo cambia lievemente questo dettaglio – l’epifania arriva quando Robin scopre che le sue terre sono state saccheggiate, il suo castello distrutto e il padre ammazzato – ma mantiene ferma l’idea dell’eroe che parte dalla parte dei ricchi e finisce per combatterli dopo aver conosciuto in prima persona i poveri e aver constatato le condizioni nelle quali sono costretti a vivere.

Will Rossella O'Hara

Un’intuizione semplice e rivoluzionaria, che rischiò di naufragare una volta che il film venne affidato a Kevin Reynolds, l’uomo che aveva lanciato Kevin Costner dandogli un ruolo da protagonista in Fandango e che lo rivolle per il suo nuovo progetto. La colpa ovviamente non è di Reynolds né di Costner, ma della macchina produttiva tutta, e quindi in ultima analisi di nessuno: troppe persone coinvolte e troppi interessi contrastanti, voci di screzi nel cast e di scene tagliate per dispetto (al compianto Alan Rickman, nientemeno), la questione dell’accento di Kevin Costner sulla quale torneremo, Johnny Depp che dice no al ruolo di Will e Robin Wright che rifiuta quello di Marian, il tempo inglese che ci si mette di mezzo e rallenta le riprese fino quasi a fermarle...

Stupisce che a fronte di tanti problemi il risultato finale sia così compatto e che emerga così potentemente l'agenda immaginata da Denshaw: trasformare Robin Hood in un eroe sociale (nell'Inghilterra delle crociate, non in un film di Ken Loach), portatore di messaggi progressisti e inclusivi, trascinato in una lotta puramente ideologica contro l'oppressore del popolo. Un Robin esplicitamente in missione per conto del 99% e contro l’1%, per il quale gli ideali sono più importanti anche dell’amicizia e dei suoi allegri compari.

Ne risulta un'opera di una cupezza e violenza insospettabili, che flirta con lo splatter quando non esplicitamente con l’horror e ricorda a tratti la rilettura fatta dieci anni prima da John Boorman della leggenda di Excalibur – pensate solo a Morgan Freeman a cui strappano gli occhi. Potremmo affermare che in questo senso Robin Hood – Principe dei ladri anticipava alcuni trend più recenti: è un film nel quale assistiamo a decapitazioni, tradimenti, mutilazioni e tentativi di stupro in un contesto medievaleggiante parecchi anni prima di Game of Thrones, e imbastiva anche discorsi motivazionali antirazzisti, inclusivi e di accettazione del diverso. C’era pure una presenza femminile (Mary Elizabeth Mastrantonio) che si presenta in scena armi alla mano; è vero che la sua figura sbiadisce, perde indipendenza e si trasforma nella classica donzella in pericolo man mano che Robin e Marian si innamorano e il film vira al melò, ma stiamo pur sempre parlando di un film in costume del 1991 che lanciò la hit “Everything I do (I do it for you)”: la sua caratterizzazione è forse il massimo del femminismo concepibile in un prodotto mainstream ad alto budget di trent’anni fa.

Robin e Marian

Robin Hood – Principe dei ladri non è comunque un film perfetto, in primo luogo perché è troppo scritto, troppo denso al punto da diventare torbido e confuso, e da perdere ritmo a più riprese. Ma resta, anche trent’anni dopo, un film di grande impatto. Merito anche dei singoli, e dell'umiltà di Kevin Reynolds, che ha metaforicamente (e forse anche letteralmente) guardato in faccia i vari Morgan Freeman e Alan Rickman e ha detto loro «OK, siete più bravi voi, sono al vostro servizio». Il primo, il moro Azem, unica figura originale (anche perché anacronistica) del film, è stato riempito di lodi da eminenti esperti del mondo musulmano perché specchio finalmente positivo di quella cultura, ed è il solito professionista incrollabile e serissimo, capace di risollevare anche i momenti più sghembi del film (e ce ne sono, soprattutto nelle confusissime sequenze action girate quasi tutte al buio).

Rickman come sceriffo di Nottingham, invece, gioca una partita a parte. Richiesto a gran voce dal regista, rifiutò due volte il ruolo finché Reynolds non gli offrì libertà assoluta di manovra – un via libera per creare uno sceriffo psicotico e fuori controllo, sempre a un passo dal ridicolo, raggelante nella sua sicumera quando (non-) violenta Marion, persino comico quando serve. La sua presenza totalizzante portò tra l’altro a grossi problemi di post-produzione: Reynolds insisteva per tenere tutte le sue scene, mentre Morgan Creek spinse per tagliarne alcune e dare più spazio a quello che, in teoria, doveva essere il protagonista. In altre parole, Alan Rickman in Robin Hood – Principe dei ladri è un film nel film, che regge la scena anche quando il resto zoppica.

Robin Hood - Principe dei ladri Robin

“E Kevin Costner?” chiederete voi. Be’, Kevin Costner ha un grosso problema di accento, come fatto notare tra gli altri da Mel Brooks e Cary Elwes, e se guardate il film in lingua originale e siete il tipo di persona che fa caso a questi dettagli rischiate di distrarvi al punto da non riuscire più a seguire la storia. È un peccato che Reynolds abbia insistito perché Costner evitasse di prendere lezioni di dizione perché aveva paura dell’effetto parodia: il risultato è che Costner al naturale, con il suo accento californiano, è un Robin Hood plausibile solo quando tiene la bocca chiusa. Per fortuna non gli mancano la presenza e il physique du role, ma non c’è dubbio che il personaggio meno riuscito di Robin Hood – Principe dei ladri sia proprio Robin Hood.

È un inciampo, ma non sufficiente a rovinare il risultato finale. Certo, rivederlo trent’anni dopo conferma che il film di Reynolds è tutt’altro che perfetto, e anzi zoppica a più riprese; ma anche quando lo fa trova sempre spazio per un po’ di sangue a litri, per qualche sotterraneo umido e inquietante, o magari per un’agghiacciante battuta di spirito, così, per alleggerire la tensione (rivedetevi il film e diteci che «Il mio amico è un lebbroso, perde pezzi di sé in tutta l'Inghilterra» non è la versione medievale di «questi non sono i droidi che state cercando»). Non sarà il Robin Hood migliore di sempre, ma per certi versi rimane il nostro preferito.

Continua a leggere su BadTaste