Ricordare Lauren Bacall in bianco e nero non è un torto ma un dovere

Creata da Howard Hawks per essere la femme fatale perfetta, Lauren Bacall è stata indimenticabile e rivoluzionaria ma si è poi adattata con fatica agli altri ruoli.

Critico e giornalista cinematografico


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Non era attrice ma modella. Nonostante avesse studiato recitazione e lavorato a Broadway il suo segreto era nell’apparenza e nella presenza più che nella recitazione. Proprio per questo Lauren Bacall ad oggi è ancora legata all’immagine degli anni ‘40 (nonostante abbia fatto film fino ai 2000), era il corpo e il volto giusto nel momento cinematografico giusto. E non per un caso.
È stato Howard Hawks (e più che altro sua moglie Nancy) a notarla in una pubblicità su un rotocalco di moda e volerla in un suo film (Acque del sud) per poi vincolarla ad un contratto in esclusiva di 7 anni. Il regista assieme alla moglie le hanno fatto da agenzia, cambiandole il nome (originariamente Betty Joan Perske), aggiustandole il look, vestendola e insegnandole a stare davanti alla macchina da presa. In tutto e per tutto il successo di Lauren Bacall è una loro creazione, plasmata per essere la protagonista femminile dei noir anni ‘40 è stata stellare, in seguito ha faticato ad adattarsi ad altro.

Almeno fino alla metà degli anni ‘50 è stata la femmina perduta, una delle migliori incarnazioni di quell’archetipo rivoluzionario di donna moderna che il noir portava al cinema: indipendente, manipolatrice e capace di manovrare gli uomini attraverso la propria attrattiva sessuale. Innovativa come presenza al pari di Barbara Stanwick e androgina come Marlene Dietrich (vera precorritrice del genere) non era un oggetto sentimentale come le altre donne del cinema ma uno puramente sessuale, non vittima della propria attrattiva, confinata da essa in ruoli di premio o oggetto da conquistare ma motore di storie che ribaltavano questa prospettiva. Per almeno dieci anni ha simboleggiato un nuovo modo d’essere donna, audace e volitiva, lasciva e pericolosissima perchè conscia della forza che il lento processo di liberazione sessuale aveva nel ribaltare i rapporti di forza tra maschio e femmina. I suoi partner nei film sparavano sempre, lei per compiere imprese anche più audaci non ne aveva bisogno.
Lauren Bacall aveva anche una sua posa originale, un colpo che aveva “inventato” (anche se fu più che altro una casualità) e che contava nel proprio arsenale, perfetto per il noir e ribattezzato The Look. Si trattava di abbassare la testa e alzare gli occhi, posizione non solo innaturale ma contraria a tutte le classiche “pose” nelle quali solitamente erano incastrate le attrici dell’epoca, tutte uguali, tutte “chiare” ed espressive. The Look invece enfatizzava le ombre e quindi il fascino di Lauren Bacall che era l’opposto delle altre, stava tutto nell’essere diversa, nelle asperità e non nelle armonie, nel viso coperto e nel suo essere a modo proprio mascolina (per voce e atteggiamento, entrambi costruiti da Hawks e signora).

lauren bacallDopo la fase noir, quella che a tutt’oggi è la più nota e che le ha regalato i freeze frame memorabili, le battute storiche, film indimenticabili (su cui regna Il grande sonno) e un marito (Humphrey Bogart, con cui si intendeva alla grande sul set) sono arrivati i ruoli più canonici. Del resto doveva pur lavorare anche lei.

Commedie screwball e melodrammi umidi come si conveniva alle star di quegli anni ma era un altro cinema e lei non era attrice versatile quanto corpo ben definito, non era facile a plasmarsi e tendeva a trascinare ogni trama nelle sue acque. Ha vissuto il successo di Come sposare un milionario assieme a Marilyn Monroe e Betty Grable (molto più suadenti e svampite di lei), in cui era donna di nuovo forte e decisa, cacciatrice di dote poco incline al sentimento e ha partecipato ad uno tra i più noti e migliori melodrammi di Douglas Sirk, Come le foglie al vento. Sprazzi di una carriera che ormai era lontanissima dai lidi nei quali sguazzava. Già in Come le foglie al vento era femmina come molte altre, corpo sentimentale pronto allo struggimento. Per il resto sceglieva pochissimi film e non sempre in maniera oculata, ha flirtato con la tv negli anni ‘60, tentato ritorni clamorosi al detective movie, la si vede di sfuggita in Misery non deve morire e negli anni ‘90 ha lavorato con Altman e poi in finale di carriera con Von Trier sia in Dogville che in Manderlay. Sempre in ruoli secondari.

Nel ricordala in bianco e nero, in abiti stretti e frame in cui le ombre le tagliano il viso non le si fa qunidi un torto ma se ne riconosce la sua grandezza, il vero grande contributo alla storia del cinema, l’aver incarnato come e meglio di molte altre colleghe uno dei punti di svolta narrativi più importanti dei suoi anni (e in generale del ‘900). Essere stata la donna giusta al momento giusto con il regista giusto. Che non è poco.

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