Returnal non è Dark Souls, per fortuna | Speciale
Il rogulite di Housemarque, Returnal, è un gioco impegnativo, ma non è mai scorretto, né ha l’interesse di mortificare il videogiocatore
Lorenzo Kobe Fazio gioca dai tempi del Master System. Scrive per importanti testate del settore da oltre una decina d'anni ed è co-autore del saggio "Teatro e Videogiochi. Dall'avatara agli avatar".
Eppure, la produzione di Sony, vuoi per la falsa partenza di questa next-gen, vuoi per il clamore mediatico che è comunque riuscita a crearsi attorno, ha attirato l’interesse del grande pubblico che, a sorpresa, si è trovato di fronte ad una struttura ludica sicuramente lontana, molto lontana per certi versi, da quella, pià canonica, di cui solitamente si fregiano i titoli tripla A.
Affilato, sì, perché la creatura di Housemarque non è particolarmente accondiscendente nei confronti del videogiocatore, disorientato sulle prime, al pari di Selene, da meccaniche avvolte nel mistero, costretto a seguire un sentiero che ha il brutto vizio di cambiare di continuo.
In Returnal, questo è chiaro sin dalla prima partita, si muore spesso e volentieri, strattonati da una progressione totalmente incostante, a tratti incoerente con sé stessa. Si potrebbe alludere a problemi di bilanciamento, innegabilmente qualcosa che non funziona nel complesso algoritmo che gestisce i biomi di Atropo c’è, ma in realtà il gioco si fonda e propone un ritmo tutto suo, in cui run chiaramente, evidentemente, volutamente impossibili da portare a termine sono parte del viaggio, giustificate persino dallo stesso diario di bordo di Selene che, più e più volte, sottolinea come le sia pur capitato di restare incastrata in cicli apparentemente inutili, che si interrompono quasi ancor prima di cominciare.
Quante volte è accaduto, per esempio, di piombare in un’arena con un boss particolarmente coriaceo, ancora armati della pistola d’ordinanza, senza alcun tipo di potenziamento, accerchiati da altre mostruosità di vario genere, incapaci, per quanto abili, di far fronte a tutte le avversità?
Quante volte, invece, è capitato di procedere spediti fino al boss di turno, batterlo, e addirittura esplorare il successivo bioma piuttosto intensivamente, prima di capitolare più per stanchezza, che per l’effettiva resistenza delle forze nemiche?
Returnal è un po’ come la vita, insomma, imprevedibile e a volte persino ingiustificatamente buona (o cattiva) con il videogiocatore. Di sicuro, tuttavia, non è mai sleale, né avaro di piccoli e grandi premi elargiti all’utente, a differenza di altri giochi tanto amati da buona parte del pubblico, come lo è Dark Souls.
Al di là del titolo dell’articolo, sicuramente provocatorio, non c’è nessuna intenzione di screditare uno dei più fulgidi capolavori degli ultimi anni, né di sminuire la prolifica prole di sequel e cloni a cui ha dato vita. L’opera di From Software ha settato nuovi standard in termini di gameplay e ha chiaramente ispirato tantissimi game designer sparsi per il mondo.
Eppure, altrettanto innegabilmente, ci troviamo di fronte ad una serie di videogiochi, i Souls-like per allargare il campo d’indagine, che si fondano anche su una buona dose di cinismo; sul fortificare il videogiocatore anche (e soprattutto) attraverso una lunga serie di delusioni; su sessioni fondamentalmente inutili alla progressione dell’avventura, spesso particolarmente mortificanti.
Perdere le anime (o più in generale i punti esperienza) faticosamente raccolte attraverso decine di battaglie mortali è un’eventualità piuttosto nota ai fan del genere. Mandare all’aria un lungo scontro per un solo attimo di distrazione è la norma. Spegnere, stizziti e frustrati, la console senza aver realmente sbloccato qualcosa o raggiunto una sorta di checkpoint non è affatto raro.
Fa parte dell’esperienza. È (anche) il suo bello, nessuno lo nega.
Returnal è indubbiamente diverso. La magia della produzione di Sony, ciò che la rende davvero mainstream, consiste proprio nella sua capacità di saper premiare in ogni caso il videogiocatore. Tra armi che si potenziano, piccoli e grandi sbloccabili, molti dei quali resistono anche oltre il game over, motivano, alimentano, incentivano il videogiocatore che, al termine della propria partita, sentirà comunque chiaramente di aver fatto un netto passo in avanti verso la risoluzione dei misteri che aleggiano sulla tetra superficie di Atropo.
Il gioco di Housemarque è indubbiamente difficile, complesso, a tratti antipatico. Propone un bilanciamento discutibile, non c’è dubbio, eppure è coerente con sé stesso, con la sua struttura narrativa, con un gameplay che sfida il videogiocatore, ma che al contempo si preoccupa sempre di riconoscergli ogni sforzo. E questo Dark Souls non sempre lo fa.