Resident Evil è invecchiato meglio del previsto | BadBuster

Resident Evil di Paul W.S. Anderson non venne accolto benissimo quando uscì, e quasi vent'anni dopo è il momento di rendergli giustizia

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Riguardavo Resident Evil, il film, quello del 2002, quello di Paul W.S. Anderson insomma, appena arrivato su Prime Video, e pensavo a quanto ero abituato bene (o viziato) diciotto anni fa se è vero che lo ritenevo il capitolo più debole di questo franchise – o quantomeno della trilogia iniziale, visto che immagino che il calo qualitativo dal quarto film in avanti sia evidente e incontestabile. Resident Evil: Apocalypse ha un ottimo villain, e Resident Evil: Extinction sterza verso il madmax-ismo e la fine del mondo e azzecca tutto quanto, dai toni alle ambientazioni alle one liner; Resident Evil, invece, almeno così pensavo fino a, be’, ieri, è solo un discreto action-horror il cui merito principale è quello di averci regalato Milla Spaccaossa e con l’enorme difetto di non assomigliare abbastanza al videogioco da cui è tratto.

Ingenuità, pregiudizio o quasi vent’anni di parabola discendente del genere hanno cambiato la mia prospettiva sul film? Voto per un mix di tutt’e tre le cose, con una leggera prevalenza della terza.

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Resident Evil e l’eredità di Mortal Kombat

Quando uscì, Resident Evil arrivò presentandosi come “tratto da un videogioco”, una frase che ancora oggi non manca di far salire un brivido lungo la schiena ogni volta che la si pronuncia, e che al tempo significava che il film doveva confrontarsi con pasticciacci brutti (o alla meglio opere mediocri) tipo Street Fighter, Wing Commander o il Tomb Raider con Angelina Jolie. Faceva parzialmente eccezione, pur con una serie di caveat, il Mortal Kombat di Paul W.S. Anderson, un ottimo film ammazzato dal PG-13 ma che dimostrava quantomeno che con un po’ di creatività e attenzione alla messa in scena si poteva sopravvivere anche senza valanghe di sangue.

Tra le altre cose, Mortal Kombat era anche un esempio virtuoso di come un autore dovrebbe lavorare di adattamento – per esempio facendo vedere di conoscere il gioco che si sta adattando, una regola che sembra banale finché non ne parlate con Justin Kurzel. Da Resident Evil, che era riuscito a guadagnarsi anche il diritto di essere pieno di plasma e viscere, ci aspettavamo, mi aspettavo, altrettanta fedeltà alla fonte, che consideravo la conditio sine qua non per la buona riuscita del progetto. E oggi che siamo nel 2020 mi rendo conto che è un’idea ridicola e limitante, ma nel 2002 Resident Evil fu, insieme, l’anno prima, al già citato Tomb Raider, un punto di svolta nel rapporto tra Hollywood e i videogiochi e l’inizio di una valanga (andate a vedere quanti film tratti da videogiochi, o ftv, sono usciti prima del 2002 e quanti dopo), ed era normale aspettarsi che fissasse alcune regole e che queste fossero scritte nel rispetto della metà più debole dell’equazione. Per cui, fedeltà prima di tutto, e il resto si vedrà.

Resident Evil locandina

Resident Evil e i film tratti da videogiochi

E invece, quasi vent’anni di esperimenti più o meno falliti hanno insegnato alcune cose. Che copiare pedissequamente dalla fonte non funziona, secondo lo stesso principio per cui il miglior fim di Harry Potter è il terzo. Che la cieca aderenza al testo è quasi sempre un modo per mascherare la pochezza del resto dell’edificio (cfr. Warcraft). Che i migliori film sui videogiochi non sono quasi mai film tratti da videogiochi (pensate a Source Code, o a Edge of Tomorrow). E che un ftv va trattato come un film, non come la messa in scena di sequenze prese dal gioco da cui è tratto, a costo di far arrabbiare i puristi, una grande verità perfettamente illustrata da Silent Hill (in positivo) e da Prince of Persia (in negativo). Per cui riguardare oggi Resident Evil e lamentarsi del fatto che c’entra solo relativamente con Resident Evil inteso come il primo capitolo del franchise di Capcom è come, mutatis mutandis, lamentarsi che l’ultimo film di Charlie Kaufman è diverso dal romanzo da cui è tratto: OK, è vero, e?

Resident Evil andrebbe invece valutato, e ancora una volta mi scuserete se quello che dico è una banalità, in quanto prodotto cinematografico, e confrontato con i suoi simili, gli Underworld e gli Ultraviolet più che gli Hitman e i Sonic. E in questo senso è, oggi molto più di vent’anni fa, un film la cui valutazione si può esprimere con l’espressione tecnica “avercene”. Tesissimo, iperviolento, è un ibrido tra action e horror che utilizza la grammatica del primo per suscitare le emozioni del secondo; un film che non se ne fa nulla dell’approfondimento psicologico e della caratterizzazione dei personaggi, affidata quasi esclusivamente alla loro capacità di tirare calci in faccia agli zombie, che non concede nulla al glamour o alle necessità promozionali (OK, con l’eccezione del vestitino rosso di Milla Jovovich), e relativamente poco al canone di Resident Evil, per dedicarsi esclusivamente al mettere in scena tutte le variazioni possibili della rule of cool.

Un film di gente fatta a fettine

Torno un attimo su Mortal Kombat: pur con tutti i suoi problemi la maggior parte dei quali non sono colpa sua ma del rating, quel film dimostrava tutte le qualità di Paul W.S. Anderson nel costruire (o farsi costruire) e poi girare belle coreografie, il suo senso della messa in scena e la sua capacità di usare allo stesso modo attori e scenografie e metterli al servizio del suo racconto per immagini. Resident Evil fa la stessa cosa: per Paul W.S. Anderson, Milla Jovovich e Michelle Rodriguez (e il resto del cast, ma è chiaro che il film è interessato principalmente a loro due) sono armi, pezzi di un mosaico in movimento, e solo in second’ordine personaggi con una motivazione e un’agenda e una psicologia. Resident Evil è una collezione di scene madre che si susseguono al ritmo di una gragnuola di schiaffi, occasionalmente intervallate da brevi momenti di respiro utili a far avanzare la storia (come le cutscene in un videogioco, appunto); è più vicino ad Aliens che ad Alien, per intenderci, nonostante per il gioco valga il discorso opposto.

E tutto quanto detto finora è portato sullo schermo con una chiarezza espositiva e una cura del dettaglio che fanno impallidire il 99% dei prodotti simili usciti successivamente; ci sarebbe un lungo discorso da fare su come certe tipologie di sequenze action, se inserite nel contesto di un film ad alto budget e che deve staccare biglietti, si sono fatte con gli anni via via più confuse, affidate a camere a mano che nascondono i difetti e consentono di suggerire la violenza senza davvero esplicitarla così da tenere a bada il mostro del PG-13. Confrontate una qualsiasi scena di botte di uno dei primi due Captain America con una a caso presa da Resident Evil e non potrete non notare la differenza – nella facilità di lettura della scena, oltre che ovviamente nella quantità di sangue impiegata.

Eppure ci ricordiamo (OK, mi ricordavo) di Resident Evil come di un prodotto “carino o poco più”, e soprattutto per via di Milla Jovovich che prende a calci i cani zombie; forse perché al tempo quando uscì lo considerai alla stregua di un buon inizio (il film non è esente da difetti, ovviamente, anzi), una base da cui partire per arrivare in breve tempo ai capolavori veri. E invece ci siamo fermati lì, e anzi per molti versi siamo addirittura tornati indietro, e siamo costretti a pronunciare frasi da boomer tipo “non li fanno più film così!”.

Speriamo in Monster Hunter.

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