Ready Player One è meglio del libro
Ready Player One è uno di quei rari casi in cui la versione cinematografica supera la sua fonte letteraria
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Al contrario, Steven Spielberg si è ritrovato di fronte alla sfida di rendere in maniera efficace e comprensibile quelle che nel romanzo sono scene di massa che assomigliano molto a un elenco nostalgico. Più in generale, si è trovato di fronte alla sfida di dover trasporre un romanzo talmente intriso di cultura nerd da sfociare nel tecnico, e renderlo appetibile anche a un pubblico più ampio – magari non chi odia Dungeons and Dragons e i robottoni giapponesi, ma quantomeno chi li conosce solo superficialmente e magari non ha mai toccato un videogioco in vita propria.
Uno dei difetti principali di Ready Player One il romanzo è la sua tendenza al gatekeeping, al tenere cioè l’asticella d’ingresso abbastanza alta da escludere chi non coglie al volo certe citazioni videoludiche o musicali (o se non escludere per lo meno costringere ad andare su Wikipedia – e quando un romanzo ti richiede di consultare l’enciclopedia ogni tre righe è probabile che ti stufi presto). Prendete le tre prove che Parzival deve affrontare per ottenere le tre chiavi necessarie ad accedere al tesoro di Halliday, in maniera del tutto analoga a quanto succedeva in quel capolavoro incompreso di Tutti gli uomini del deficiente.
Nel libro, le prove prevedono tra l’altro di conoscere a memoria WarGames con Matthew Broderick, di trovare un segreto nascosto nell’avventura testuale Zork e, ancora, di conoscere a memoria (e saper suonare) la terza sezione della suite 2112 dei Rush, Discovery. Roba complicata da rendere visivamente, e altrettanto complicata da infilare in un blockbuster d’azione senza trasformarla in uno spiegone costante; e roba anche difficile da risolvere "in diretta", e che potrebbe scoraggiare una fetta di pubblico, o spingerla appunto a correre su Wiki invece di guardare il film. Spielberg cambia la natura di queste tre prove in modo da renderle non solo più spettacolari, ma soprattutto più comprensibili a chiunque. La prima è una corsa di macchine, sul cui percorso spuntano tra le altre cose il T. rex di Jurassic Park e King Kong, e che si risolve con un trucchetto che si può mostrare invece di spiegare, e che soprattutto è la soluzione di un generico enigma, non un riferimento preciso a questo o quel prodotto.
Oppure prendete la seconda prova: il Cline del romanzo usa Blade Runner e in particolare il test di Voight-Kampff come riferimento, cioè la parte più cerebrale e meno spettacolare dell’intera storia. Spielberg sceglie invece Shining, e non crediamo sia solo questione di diritti d’autore: la sequenza è coerentemente citazionista, ma visto che parliamo di racconto per immagini è innegabile che l’ascensore da cui esce la cascata di sangue sia più d’impatto di due persone che chiacchierano mentre una cerca di capire se l’altra sia o meno un robot.
Si potrebbe fare un intero speciale dedicato a come Spielberg ha preso una storia che funzionava soprattutto per il suo effetto nostalgia e l’ha riorganizzata in modo da farla assomigliare a una grande avventura per ragazzi anni Ottanta come quelle che lui stesso inventò: dalla scelta di spostare il primo incontro tra Wade e Samantha in mezzo al film invece che relegarlo al finale, all’aggiunta del personaggio di F’Nale (perdonate il gioco di parole) che serve a dare un volto più concreto alla minaccia della IOI. Tutte quante, però, sono caratterizzate dallo stesso intento di fondo: prendere una storia per certi versi criptica e impenetrabile a chiunque non sia un’enciclopedia pop alla pari di James Halliday e trasformarla nell’equivalente Amblin di una nuova stagione di Fortnite – detto nell’accezione più positiva possibile.
Il vero grande cambiamento (o aggiunta, forse) fatto da Spielberg e lo stesso Cline a Ready Player One è però un altro e non ha nulla a che vedere con la cultura pop e il citazionismo. Sul finale del romanzo, infatti, Parzival eredita OASIS e ne diventa il padrone insieme agli amici rimasti (nel libro ci sono decisamente più morti). Nel film scopriamo qualcosa di più su questo nuovo regno – tra cui il fatto che da lì in avanti OASIS verrà spenta due volte alla settimana per convincere la gente a godersi anche il mondo reale.
Anche nel romanzo, in realtà, c’è un vaghissimo accenno a quest’idea. È proprio sul finale, quando Wade e Samantha si baciano per la prima volta: la frase che chiude il libro è “it occurred to me then that for the first time in as long as I could remember, I had absolutely no desire to log back into the OASIS”, cioè circa “mi resi conto in quel momento che per la prima volta da quando avevo memoria non avevo assolutamente alcun desiderio di tornare dentro OASIS” (ci perdoni la traduttrice ma non abbiamo sotto mano la versione italiana). È, appunto, solo un accenno, una piccola rivelazione personale. Spielberg la rende sistemica, e quindi secondo alcuni anche predicatoria. Dissentiamo: lo sarebbe se il resto del film andasse nella direzione della demonizzazione dell’escapismo.
In realtà ne è una celebrazione, e più che predicatorio il finale è ecumenico: “I videogiochi sono belli e importanti” ci dice, “ma lo è anche uscire a fare due passi e prendere il sole in faccia. Per cui fate entrambe le cose”, conclude. C’è chi direbbe che è un modo democristiano per non affrontare il problema; noi diciamo che è buon senso, quello che un po’ manca al romanzo, che è troppo impegnato a segnalare l’esistenza di una divisione tra noi e loro, e a chiedere al lettore “sei dalla parte giusta della barricata?”. Spielberg ci vuole tutti dalla stessa parte di questa barricata, anzi vorrebbe direttamente abbatterla: anche per questo la sua versione di Ready Player One è superiore alla controparte letteraria.