Quibi potrebbe essere il fallimento audiovisivo dell'anno a giudicare dai contenuti al lancio

Jeffrey Katzenberg lo vende come il futuro dell’audiovisivo, ci ha investito 1,75 miliardi di dollari e al momento è pieno del passato dell’audiovisivo

Critico e giornalista cinematografico


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Jeffrey Katzenberg raramente sbaglia. Non ha sbagliato quando negli anni ‘90 si è fatto un nome rimettendo in piedi la Disney producendo i film del Rinascimento, non ha sbagliato quando ha lasciato la Disney e fondato la Dreamworks con Steven Spielberg e David Geffen ma adesso questa striscia di clamorose vittorie che lo hanno portato ad avere un potere non indifferente ad Hollywood potrebbe interrompersi. Il lancio della sua nuova clamorosa impresa in cui sono stati investiti 1,75 miliardi di dollari (il miliardo in sviluppo e i 750 milioni in contenuti con 5 anni di lavoro) è stato ad essere generosi “irrilevante” e nonostante il meglio in teoria debba ancora arrivare, dopo una settimana di prova l’idea è che ci voglia un miracolo per convincere qualcuno a pagare per Quibi, cioè per un piattaforma fruibile solo da device portatili (tablet o smartphone) che propone una grande quantità di serie, show televisivi e notiziari in episodi da meno di 10 minuti. L’apoteosi del contenuto breve “di qualità” che invece al momento non vale tutti e due gli occhi ma solo uno, mentre l’altro controlla la posta o segue qualcos’altro.

Al momento i mesi di prova gratuita sono 3, tantissimi, e gli show disponibili sono una caterva di spazzatura televisiva raramente buona, occasionalmente piacevole, molto spesso allucinante come lo possono essere certe trasmissioni trash, in troppi casi nemmeno così brutte da essere divertenti. Di materiale capace di giustificare un abbonamento non c’è nulla, di capace di far venire voglia di riaprire Quibi, per ragioni che non siano quelle di realizzare questo articolo, nemmeno.

Quanto è peggio più lo si usa più è evidente che Quibi sia stato pensato troppo in grande. Non è un’app che cerca di trovare un pubblico e radicare una fruizione, ma nasce già impacchettata per essere di culto, già grande, con un nome che abbrevia quick bites (la tagline "Quick Bites, Big Stories"), così da poter identificare i propri episodi brevi come “un quibi”. Slang che solitamente sono i consumatori a creare quando qualcosa va di moda ma che qui è parte del pacchetto, Katzenberg lo inventa per noi e ci dice come chiamarlo in maniera giovane tra amici.

Se non altro l’app tecnicamente è molto buona, quel miliardo in sviluppo è servito per un’interfaccia che mette insieme Netflix e Instagram e per una tecnologia che consente di vedere i contenuti sia in verticale che in orizzontale senza perdere nulla. Sostanzialmente passando al verticale siamo sempre in grado di vedere chi parla o di seguire l’azione. In certi casi lo schermo si splitta da solo in due (sopra e sotto) per mostrare due persone o due situazioni. E bisogna dire che questo funziona. Tecnicamente Quibi non ha difetti. Certo non è molto originale né si prende dei rischi, ma funziona.
Se si guarda ai contenuti invece è il grande ritorno della vecchia tv, è quanto di più vecchio immaginabile. In teoria la sua concorrenza sul terreno della brevità (video Facebook, YouTube, Tik Tok e le stories dovunque esse siano postate) ha come forza il fatto di liberarci dal tipo di contenuti televisivi, questo è l’opposto. Del resto è il frutto di un quasi 70enne (Katzenberg) e un 63enne, Meg Whitman, ex CEO di Hewlett Packard ex CEO di eBay e candidato governatore della California del 2010. Loro hanno radunato quella montagna di denaro e partner come Google, Anheuser-Busch, Walmart, Pepsi e Procter & Gamble.

Ma chi di questi davvero metterebbe la sua pubblicità accanto al reboot della trasmissione di Mtv Punk’d (Scherzi a parte fatto da Chance The Rapper in 8 minuti) o per Most Dangerous Game (in cui Liam Hemsworth, povero in canna ma con famiglia a carico, accetta di farsi dare la caccia in città per soldi, supervisionato da Christoph Waltz) o Survive (serie in cui Sophie Turner è una ragazza con problemi mentali e tendenze suicide che rimane coinvolta in un incidente aereo e dovrà cercare di sopravvivere) o ancora il teen mystery When The Lights Go Off (che pure è il migliore del gruppo dei prodotti “di finzione”)? Chi vorrà spendere 9€/mese quando per meno c’è Netflix e sul televisore?

In questa settimana in cui ho lasciato Quibi sempre acceso di sfondo ho visto diversi film a puntate (produzioni di serie B nel senso peggiore del termine, non valevoli nulla, ancora peggiori nel momento in cui sono spezzettate) e solo due buoni documentari (You Ain’t Got These con Lena Waithe tutto sulla sneaker culture, e I Promise con LeBron James).
Ma sono gli show televisivi a far cadere le braccia, produzioni americane orrende che pensavo ci fossimo lasciati alle spalle. Inutile elencarli tutti, vi dico solo il più curioso, The Shape Of Pasta, in cui uno chef californiano malato di pasta viaggia in Italia alla ricerca di forme di pasta artigianali che “stanno scomparendo” e si meraviglia a guardare anziane signore che fanno le trofie (se solo sapesse che stanno nei supermercati!).

E ci aggiungo il guilty pleasure di Quibi, l’unico che almeno ha il pregio di essere “so bad it’s good” che è Thanks a Million, in cui in ogni puntata una celebrity dona di tasca propria 100.000 dollari a qualcuno che nella sua vita gli ha fatto del bene e questi si può tenere la metà ma dare l’altra a qualcuno che gli ha fatto del bene e quest’altro pure deve farlo stesso. Una catena di tre anelli (nella prima puntata i soldi ce li mette Jennifer Lopez, poi a scendere in notorietà Kevin Hart, Kristen Bell, Tracy Morgan e poi non li ho più riconosciuti) in cui seguiamo il denaro di donazione in donazione. L’apice ovviamente è il momento in cui ci si presenta dal ricevente, si fa un discorso su quanto sia stato inspiring e si tirano fuori le banconote. Proprio la valigetta piena di decine di migliaia di dollari in banconote di piccolo taglio per sembrare tantissimi! E lì partono le lacrime e le promesse di un domani migliore con le mazzette di dollari in mano.

Impostato così Quibi è un disastro senza appello, un disastro da 1,75 miliardi di dollari pieno o di produzioni riciclate (cioè che non nascevano da 8 minuti a puntata ma così vengono presentate chiamandoli “film a puntate”) o di show di quart’ordine come Dishmantle, un cooking show la cui particolarità è che degli chef assaggiano dei piatti che gli sono stati sparati addosso col cannone e poi devono rifarli. Ogni giorno ci sono nuovi episodi di queste serie e ogni tanto ne parte una nuova.
Nel primo anno Quibi farà partire 175 nuovi show e se non altro ancora non si sono visti i più promettenti. Fino ad ora su si trovano produzioni con Sophie Turner, Chrissy Teigen (internet star che fa da giudice per davvero in una specie di Forum all’americana), Chance the Rapper, LeBron James, Jennifer Lopez, Reese Witherspoon (in una serie di documentari sugli animali che traducono nel mondo delle bestie gli atteggiamenti dei teenager), Liam Hemsworth con Christoph Waltz e Lena Waithe. E quasi nessuno ha uno show valido, devono ancora arrivare le produzioni con Idris Elba, Nicole Richie, Demi Lovato, Will Smith, Laura Dern, Tyra Banks, Zac Efron, Bill Murray e Laurence Fishburne ma a questo punto l’hype è scarso.

Più senso ha magari aspettare cosa abbiano in serbo i creativi che hanno già firmato per realizzare (o solo distribuire) con Quibi per una loro produzione, cioè Ridley Scott, Steven Spielberg, Guillermo Del Toro, Antoine Fuqua, Catherine Hardwick e Sam Raimi. È ovvio che qualcosa di interessante da questi nomi potrebbe avere un senso completamente diverso da quello che sta proponendo ora Quibi e alzarne la qualità. Ma per cosa? I mozzichi da 8 minuti di contenuto sono per occasioni sociali che in questo momento nessuno ha (viaggio sui mezzi pubblici, attese, intrattenimento per pasti al volo…) e la concorrenza dei social media o dei contenuti brevi su YouTube è spietata oltre che decisamente più appropriata all’utenza. Il punto di Quibi infatti è che la sua fruizione non ha senso per gli adulti ma è pieno di materiale brutto per adulti, materiale realizzato da grandi aziende ma mai a livelli di qualità alti. L’opposto di quel che fino ad ora è chiaro che interessa al pubblico più giovane: di contenuti fatti da loro coetanei, non professionisti, con valori produttivi non alti ma adeguati agli obiettivi.

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