Quattro matrimoni e un funerale, trent’anni dopo è invecchiato benissimo

Quattro matrimoni e un funerale compie tre decenni di vita ed è forse la romcom invecchiata meglio degli anni Novanta

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Quattro matrimoni e un funerale è, dice la mitologia della Hollywood dei belloni, il film che lanciò Hugh Grant sulla scena internazionale, e che regalò a intere generazioni di persone che amano la bellezza maschile un modello diverso dal classico mascellone americano biondo: il mascellone inglese moro, con gli occhi da cerbiatto, i capelli sempre scompigliati e quell’aria da persona che riesce a essere funzionale nella vita esclusivamente grazie al fatto di essere affascinante. È tutto vero, intendiamoci: è il primo film al quale Grant partecipò a essere scritto da Richard Curtis, del quale diventò poi una delle proverbiali muse, e fu l’inizio di una carriera talmente travolgente che negli ultimi anni lui stesso se n’è un po’ stufato e ha cominciato a tentare altre strade. Ma Quattro matrimoni e un funerale è anche molto altro.

Quattro matrimoni e un funerale è invecchiato benissimo

Innanzitutto, come suggerisce il titoletto qui sopra e anche il sommario dell’intero pezzo, Quattro matrimoni e un funerale è con ogni probabilità la commedia romantica invecchiata meglio degli anni Novanta. Con questo intendiamo dire che spesso le romcom di quell’epoca (e anche prima, ovviamente) si rivelano, con il senno di poi, avere dei problemi che al tempo non erano prevedibili o pronosticabili. Parliamo di battutacce omofobe, sessiste, razziste, tutte quelle cose delle quali parliamo già in questa rubrica e che, come detto, spesso sono semplice conseguenza dell’età dell’opera, non di cattive intenzioni da parte di chi l’ha scritta.

Tutto sommato, considerando che stiamo parlando di un film di trent’anni fa, a Quattro matrimoni e un funerale è andata alla grande: è un film delicato, scorretto quando serve ma mai cattivo con chi è debole (a parte la povera Henrietta), e talmente interessato alla decostruzione del suo protagonista, il classico “maschio che non sa legarsi”, da non avere tempo fisico per farsi distrarre da possibili cattiverie gratuite. Tutta la ricca fauna che ruota intorno a Charles è composta da gente a suo modo queer (in questo senso il suo vero erede è Il diario di Bridget Jones), che però non viene mai trattata come un token o al contrario umiliata e sfruttata come motore delle gag. È un film nel quale la gente ha rapporti tutto sommato sani, e che ha la capacità di vedere nell’altro, be’, solo “l’altro”, non un fenomeno da baraccone perché ha gusti sessuali diversi dai propri o i capelli colorati. Al netto dell’assenza di smartphone e Internet, Quattro matrimoni e un funerale potrebbe essere stato scritto in gran parte l’altroieri.

Benissimo ma non alla perfezione

Non “tutto” perché ci sono comunque un paio di passaggi delicati e che oggi, trent’anni dopo, lasciano un po’ basiti. Uno su tutti: il film dovrebbe essere una grande storia d’amore basata sul più classico dei colpi di fulmine, peccato che non faccia mai nulla per giustificare davvero questa folgorazione. Cioè: Charles e Carrie si incontrano a un matrimonio, fanno sesso la prima volta quando si reincontrano al secondo matrimonio, lo rifanno al terzo e infine decidono di amarsi e di mandare all’aria tutti i rispettivi piani di vita. In mezzo c’è tanto silenzio, attesa, mistero: per loro, ma anche per noi, che non abbiamo mai davvero modo di capire il perché di questo amore così travolgente.

Obietterete: “il colpo di fulmine funziona proprio così”. Certo, ma l’amore? Quello vero e duraturo e che ti porta a chiedere all’altra persona di passare tutta la vostra vita insieme? Che cos’hanno davvero in comune Charles e Carrie, a parte una notevole intesa sessuale? È anche vero che tutto Quattro matrimoni e un funerale è volutamente vago in questo modo: non sappiamo mai di preciso che mestiere faccia Charles, per dirne una, e perché possa svegliarsi ogni mattina a un orario indecente senza che il suo stile di vita ne risenta. È un personaggio tratteggiato a grandissime linee: quello che conta è che non vuole sposarsi perché forse non crede nell’amore, e il film è un lungo tentativo di dimostrargli che si sbaglia. Resta però una caratterizzazione un po’ semplicistica, alla quale non si pensa perché tutto intorno a lui succedono un sacco di cose buffe, ma che analizzata con un po’ di attenzione rivela come Quattro matrimoni e un funerale non abbia lo stesso spessore e voglia di analisi di, per dire, i film di Nora Ephron.

Quattro matrimoni e un funerale e un sacco di casino

Rispetto ai vari Harry ti presento Sally o C’è posta per te, però, il film di Mike Newell ha più di quella che in altre sedi è stata definita locura. Perché come detto (e come vale per un sacco di romcom) è un film di ecosistema e non solo basato sui due protagonisti, e quindi lascia spazio a una serie di interpretazioni pazzesche di attori pazzeschi che si infilano in situazioni… vabbe’, avete capito. La coppia composta da John Hannah e Simon Callow è forse quella che più lascia il segno, ma la nostra personale preferenza va al dolentissimo personaggio di Kristin Scott Thomas, apparente stronza monoespressiva che rivela una profondità e un malessere sufficienti a riempire un film a lei dedicato.

Quello che vogliamo dire è che, alla fine, Hugh Grant o meno, Andie MacDowell o meno, Quattro matrimoni e un funerale sarebbe comunque un filmone, perché la cura che c’è nella scrittura dei protagonisti si ritrova, a volte moltiplicata, nei c.d. “personaggi secondari”. Che secondari non sono, rappresentano semmai altre sfaccettature dell’archetipo interpretato da Hugh Grant, e che quindi diventano a loro modo anch’essi protagonisti di un racconto corale come se ne sono visti pochissimi negli ultimi trent’anni. Il fatto che alla fine l’amore trionfi è quasi secondario, considerato quanto è bello il resto.

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