Quando il cinema italiano sarà meno maschilista farà Anatomia di una caduta | Bad Movie

Il Bad Movie della settimana è Anatomia di una caduta di Justine Triet, Palma d'Oro a Cannes, uscito al cinema il 26 ottobre

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Il Bad Movie della settimana è Anatomia di una caduta di Justine Triet, uscito al cinema il 26 ottobre

Premessa

Negli ultimi anni sono arrivati una serie di film, spesso diretti da registe, dove il femminile è protagonista sì ma spesso in chiave aggressiva, manipolatoria, omicida, colpevole, in una parola: rivoluzionaria. Chiave rivoluzionaria e ruolo rivoluzionario, nel senso di anomalo e in discontinuità rispetto al passato, soprattutto in relazione al ruolo della donna dentro il racconto audiovisivo commerciale come si faceva in passato in vari paesi, e tradizioni cinematografiche, dal 1895 a oggi. Ci sono sempre stati negli anni episodi fulgidi di protagonismo femminile sui generis, ma ora stanno arrivando film sempre più belli e affascinanti che hanno delle artiste alla guida del racconto. Basta, finalmente, vedere su grande schermo solo le funzioni di madre, sposa, amante, vittima. Queste opere fanno esplodere le protagoniste in mille direzioni inaspettate: politica, potere, arte, società, sesso, crimine, famiglia. Provocano, ovviamente, reazioni indignate specie in analisti maschi, di varie generazioni, terrorizzati e infastiditi da tutto questo women's empowerment dentro la narrazione audiovisiva di massa che grazie al cielo rifiuta la nicchia. Meglio, per questi critici e questi spettatori arteriosclerotici, continuare a vedere epiche di 206 minuti dove si enfatizza solo ed esclusivamente il ruolo di vittima della donna, come succede ad esempio in Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese.

E poi c'è un'altra grande colpa. Non solo l'esistenza di questo gruppo di film ma anche le loro vittorie. Ma come si permettono di vincere pure? Leggiamo: “È il trionfo del politicamente corretto”, oppure: “Vincono solo per via del MeToo” o, i commenti più esilaranti perché realmente frutto di puro terrore: “Ancora?” “Ma quanto deve durare ancora questa moda?”.

Eh già. Ma come si permettono tutte queste registe, con storie di donne protagoniste esuberanti e decisioniste, di vincere a Berlino, Sundance, Cannes, Venezia? Noi italiani li facciamo questi film? No.

Basta vedere pellicole idolatrate del 2023 come Il Sol dell'avvenire o Mixed by Erry per ravvisare una debolezza, se non totale assenza, di un femminile anche solo vagamente caratterizzato in chiave di potenza o anche solo di personalità all'interno di quei racconti. L'unica pellicola nostrana che va vagamente verso questo movimento, prima dell'arrivo di C'è ancora domani di Paola Cortellesi, è stato in questo ormai quasi finito 2023 L'ultima notte di amore di Di Stefano dove Linda Caridi interpreta un personaggio ingombrante, pericolosa come responsabile delle sue azioni e istigatrice riguardo decisioni di altri per non dire quasi manipolatoria nei confronti di suo marito interpretato da Pierfrancesco Favino.

Il nostro cinema, purtroppo, è ancora in mano a vecchi uomini, sia anagraficamente che ideologicamente, affezionati a un cinema maschilista, chiusi a riccio nei confronti di questo movimento straniero che ribattezziamo, in omaggio al mondo rock, Queens of the Neo-Noir Age, in cui eroine, femme fatale, avventuriere e dark lady sono regine dell'affabulazione. Nel bene e nel male.

Queens of the Neo-Noir Age

Ma di quali titoli stiamo parlando? Tár (2022) di Todd Field (che succederebbe se la donna al potere diventasse come l'uomo al potere? Fine dei sogni per noi femministoidi speranzosi?), La scelta di Anne (2021) di Audrey Diwan (com'era provare a non voler essere madre e quindi abortire prima del 1968 in Francia? Da testo di Annie Ernaux), Titane (2021) di Julia Ducournau (c'è possibilità di redenzione umana per una stronzissima serial killer nichilista incinta di una macchina?), Saint Omer (2022) di Alice Diop (chi è Madame Coly? Chi è questa strega africana venuta in Europa per studiare filosofia e poi finita ad uccidere i figli di noi vecchi europei post-colonizzatori rinnegando la razionalità dei nostri processi giudiziari?). Tutti film fantastici, nuovi, sfidanti, stimolanti e complessi. Adesso è arrivata un'altra rappresentante Queens of the Neo-Noir Age. Si chiama Sandra Voyter, fa la scrittrice, ed è la protagonista del geniale Anatomia di una caduta (2023) di Justine Triet, Palma d'Oro all'ultimo Festival di Cannes poi non scelto dalla Francia per rappresentarla all'Oscar. Il film è attualmente nelle nostre sale. Ed è un magnifico testo di 152 minuti che vola davanti ai nostri occhi per via della fresca struttura, ariosa e perennemente cangiante, che si dipana davanti ai nostri occhi di spettatori. C'è da dare la risposta a una domanda.

Chi è Sandra Voyter?

È morto suo marito. Caduto dalla soffitta della loro villa in mezzo alla neve di Grenoble. L'ha spinto lei? Si è suicidato? La spinto lei dopo averlo colpito alla testa con un pesante oggetto? Lui è precipitato accidentalmente? Si chiamava Samuel Maleski. Viveva lì, tornato nel suo paese natale francese, con la moglie scrittrice Sandra Voyter, il figlio undicenne Daniel e il cane Snoop. Daniel e Snoop erano usciti per una passeggiata quando è successo il fatto. Daniel non ci vede ma parla (è successo un incidente dove ha perso la vista quando aveva 4 anni) mentre Snoop ci vede ma non parla. Bizzarra coincidenza: gli occhi del figlio e gli occhi del cane si somigliano e spesso sono inquadrati dalla regista. Sono alieni, azzurri e opachi insieme, offuscati, appannati. Sono strumenti di visione difettosa e limitata. Come la nostra, durante questi perfetti 152 minuti, perché Triet e Arthur Hariri (buffo: sono moglie e marito gli autori di questo noir su moglie e marito) si divertono a scomporre Sandra Voyter facendoci vedere un nuovo aspetto del suo essere in sé, nella sua famiglia e nella società, circa ogni 20-25 minuti. Qui sotto alcune Sandre del film.

Sandra è seduttiva

È l'inizio. Sandra sta conversando con una studentessa che vuole fare una tesi su di lei. La studentessa vuole parlare di arte. Sandra vuole parlare con lei e di lei. È una tecnica di seduzione? Sta flirtando? È infastidita che il marito, al piano di sopra, sia a sua volta irritato da questa visita casalinga in omaggio alla carriera letteraria della moglie? Sandra è allegra e affabile e parla di frivole intimità. “Dovevamo vederci a Grenoble” ripete sempre alla bella ragazza che l'intervista e non nella villa che la denota come moglie e madre. “Non mi piace lo sport” veniamo a sapere. Dopo verremo a sapere che è bisessuale.

Sandra è vedova

Subito dopo la notizia della morte di Samuel, grazie a Daniel tornato dalla passeggiata con il cane che la chiama mentre lei sta ignara al piano di sopra, Sandra diventa vedova. La Triet inquadra foto che la ritraggono con Samuel. Entrano medici e poliziotti in casa. Scopriamo che Sandra vive lì con Samuel da meno di due anni. Sandra è affranta e disorientata. “Sono così stanca di piangere”. Quando parla del marito defunto lo esalta e lo descrive come “carismatico” e “affascinante”.

Sandra è sospettata

Insieme a tutte le persone che entrano nelle nostre vite e nelle nostre case in circostanze del genere (il film di Triet è sia un giallo, sia la descrizione di una tragedia nella nostra intimità di coppia, sia la descrizione di un processo che ci porta davanti agli occhi della società), Sandra riceve sempre più spesso le visite di Vincent Renzi, un avvocato. Lui le spiega serafico che, non essendoci prove certe del suicidio, lei potrebbe risultare una sospetta. Sandra lo interrompe con fermezza al 30esimo minuto di film: “Alt. Stop: non l'ho ucciso io”. Improvvisamente è ferma e quasi autoritaria. Non è più “stanca di piangere”. Pare nervosa. Non è più la vedova balbettante in lacrime. Vincent Renzi, quando si frequentarono da giovani, era innamorato di lei. “Penso che sia caduto” dice Sandra. “Nessuno lo crederà mai” ribatte Vincent: “Io stesso non ci credo”. E quindi: o è suicidio o è omicidio. Il film ci fa dolcemente scivolare verso questo binomio.

Sandra è madre

Daniel, interpretato con acume da Milo Machado-Graner, è il figlio di due intellettuali. “Io devo capire” dirà subito. Ipovedente sì ma autonomo in molte attività (nella fase oggettiva del film lo vediamo all'inizio portare a spasso il cane da solo in mezzo alla neve). Se c'è un personaggio che destabilizza la scrittrice durante il film è lui. Perché lo teme? Perché lo vuole proteggere? Perché sa che Daniel “deve capire” e lo farà per il resto della sua vita? Quando Sandra è con lui pare disarmata, esitante, attendista. La presenza di un'assistente sociale che si piazza in casa loro (su scelta giusta della giudice) e addirittura fa in modo che Sandra lasci l'abitazione (su richiesta di Daniel) non fa altro che enfatizzare questa sua paura di perdere autorevolezza, fiducia e dunque presa sul figlio. Sia come madre sia come sospetta che ha bisogno della sua testimonianza per sfangarla al processo.

Sandra è bilingue

Questo aspetto ha quasi una connotazione politica. La tedesca Sandra, che non potrebbe parlare in inglese durante il processo, spesso usa questa lingua come “terreno neutro” (espressione che utilizzerà in un epico scontro con il marito in flashback) come per ribadire: “Sto giocando fuori casa ma non accetto di umiliarmi e depotenziarmi con la vostra lingua”. Della serie: è una scrittrice, conosce il potere delle parole in un'aula di tribunale e quindi non molla l'inglese perché lo conosce meglio del francese, lingua di Samuel e del paese che la sta processando.

Sandra è tedesca

Ma senza patria. Uno degli aspetti più interessanti del film è lo scollamento totale tra Voyter e il suo paese d'origine. Perché nessuno dei familiari la va a trovare durante il processo? Nessuno dei vecchi amici? Perché Sandra è tedesca ma non sembra di avere alcun collegamento con la Germania?

Sandra è un'artista

Chi è l'artista? Colui che rischia, colui che accetta la sfida di far valutare la propria espressione alla società che poi concede o meno quel ruolo attraverso editori, critici, pubblico. Sandra lo è. Da anni. Non vende come Stephen King (protagonista di uno dei momenti più divertenti del film; lui e la moglie Tabitha) ma se la cava avendo pubblicato più di 4 libri. Samuel no. Si rifiutò nonostante ambisse a esserlo. Perché era troppo tremebondo? Troppo insicuro? Troppo giovane? Il film di Triet ci ricorda la durezza mentale che ci vuole per assolvere questo ruolo così affascinante e cangiante dentro le nostre società nel corso della storia della nostra umanità. Sandra ha raggiunto quel titolo e lo rivendica con orgoglio. Samuel vorrebbe recuperare il tempo perso in gioventù per diventare anche lui artista. Alla fine l'accesso o meno a questo “patentino” è al centro di gran parte dei loro contrasti recenti prima della morte di Samuel. Il tema è alla base dell'eccezionale scena di scazzo con il marito. Una litigata (la scriverebbe Ingmar Bergman se vivesse oggi) che riviviamo nella seconda parte via file audio di una conversazione agitata tra i due coniugi recuperata al processo e “oggettivizzata” davanti ai nostri occhi da Triet. Lui la accusa di averlo plagiato in passato e di avergli rubato la possibilità di essere uno scrittore copiandogli un'idea di un romanzo abbozzato. Lei gli ricorda che lui abbandonò l'opera e diede l'ok che lei utilizzasse quello spunto.

Sandra è una manipolatrice

Fino all'ultimo pensiamo che a questo pensi Vincent Renzi. Sandra sa che lui è invaghito di lei da anni. Ha utilizzato questa attrazione per averlo gagliardo e motivato al suo fianco durante il processo? Straordinario il momento in cui Sandra prende la testa di Renzi tra le sue mani verso la fine del film e improvvisamente ci aspettiamo che lo baci o che finalmente gli dica a quale animale somigli (prima lo aveva frustrato non dicendogli a quale fauna lui fosse identico nonostante fosse un vezzo di lei fare questo gioco con tutti) ma invece Sandra lo contempla contenendo il volto di lui tra le mani e non fa niente. Ha ottenuto quello che voleva.

Sandra è colpevole

“Se vinci ti aspetti un premio e invece non c'è. È solo finito” dice lei enigmatica alla fine del processo e del film. Daniel ha paura di incontrarla alla fine e anche lei di incontrare lui. Tre abbracci finali di Sandra in cui improvvisamente ci sembra colpevole: 1) con l'avvocato Renzi in cui per una volta crolla davanti a lui facendosi piccola piccola 2) con Daniel dove Daniel è padre e pare abbracciarla con freddezza baciandole riluttante la testa 3) con il cane Snoop, che nel corso del film ha assunto quasi magicamente l'identità del marito morto. Sono tre abbracci finali molto ravvicinati nella pellicola che denotano uno stato d'animo particolare che non abbiamo mai visto in Sandra prima. Tanto che anche Renzi, accortosene, le chiede: “Va tutto bene?”.

Sandra è innocente

È una donna dalla vita turbolenta e complessa come la sua relazione con Samuel. All'inizio pare discepola di questo uomo così bello e carismatico e poi lo supera nell'arte, lo colpevolizza per la perdita della vista di Daniel (l'incidente avviene quando il bimbo è sotto la supervisione del papà) e lo tradisce perché sessualmente più attiva e più affamata di lui. Accetta di tornare a vivere nella Francia di Samuel anche se non ama affatto le montagne isolate fuori Grenoble. Non tollera che lui la colpevolizzi di tutti i fallimenti e rimpianti della sua esistenza di uomo improvvisamente “perdente” come si evince dall'epica litigata svoltasi 20 ore prima della caduta.

Anatomia di Anatomia di una caduta

Tutta questa scomposizione del personaggio di Sandra Voyter, fulcro della sceneggiatura di Triet e Harari e cuore del film, è stata fatta forzatamente da noi. La pellicola non è contorta o punitiva. È una gemma di studiata naturalezza, prodotto di una metodologia di racconto raffinata, seducente e mai snob nella sua volontà anche di essere un classico film processuale (dopo la prima ora, andiamo in tribunale). Non ci annoiamo mai perché, ribadiamo, l'idea è che ogni 20-25 minuti arrivi davanti ai nostri occhi una Sandra diversa e poi, et voilà, siamo alla fine di 152 minuti freschi come una rosa e pieni di dubbi. La caduta di una coppia, di Samuel Maleski e anche di Sandra Voyter e Daniel Maleski, vengono raccontate attraverso una sceneggiatura e un montaggio da studiare nelle scuole di cinema. Il film è un godimento assoluto di sequenze oggettive, ricordi soggettivi (il più bello è Daniel che pensa che suo padre, paragonandosi a Snoop, lo abbia preparato alla sua morte), colonna sonora (l'utilizzo del remix di P.i.m.p di 50 Cent è sublime), ambientazioni (perfetta la villa di Grenoble, né bella né brutta e squinternata proprie come le finanze della coppia), processo (dove a differenza di Saint Omer il punto di vista attraverso cui si vive il dibattimento non è della protagonista ma nostro, del pubblico) e attori.
Tutti gli interpreti sono perfetti ma, ça va sans dire, Sandra Hüller è strepitosa come Sandra Voyter. Tutte quelle facce di Sandra è lei che le indossa come fossero maschere.

Conclusioni

E secondo voi Sandra Voyter è vittima o carnefice? Perché questo anche ci esalta del film di Triet: non nascondere l'identità gialla, venata di noir, di un prodotto audiovisivo che non si vergogna di voler giocare anche con questa così basica, ma necessaria, domanda. Ecco perché fa parte in modo perfetto di questo movimento di Queens of the Neo-Noir Age dove sono le donne, finalmente, a farla da padrone nel racconto. In tanti ruoli diversi. Terminiamo auspicando che anche in Italia, magari attraverso nuove registe di personalità, arrivi questo tipo di cinema. Luca Guadagnino è stato molto sul pezzo recentemente sia con le sue streghe buone, in congresso partitico e autocritiche protagoniste della Terza Via politica di Suspiria (2018) che con la cannibale con fantasie piccolo-borghesi di Taylor Russell in Bones and All (2022). Ma Guadagnino, purtroppo, fa molto più parte del movimento audiovisivo anglosassone dove da anni il Women's empowerment è in cima alla lista di cose da fare in agenda. In Italia è già un miracolo se è arrivato C'è ancora domani di Cortellesi. Per le Queens of the Neo-Noir Age… dobbiamo avere ancora molta pazienza.

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