Q&A: David Fincher mostra un'anteprima di Gone Girl agli studenti di Roma!

David Fincher a Roma per presentare Gone Girl - L'Amore Bugiardo impartisce una lezione di filmmaking agli studenti di cinema delle scuole capitoline

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Schietto, onesto, diretto.
Non poteva scegliere aggettivi migliori per introdurre David Fincher Francesco Alò, moderatore della masterclass tenuta dal regista con gli studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia presso la Casa del Cinema.

Per quasi un’ora e mezzo, il regista di Denver, Colorado, non si è sottratto alle domande dei ragazzi e delle ragazze intervenute,  intavolandoun’accesa, stimolante sessione di Botta&Risposta. 90 minuti di Lezione di Cinema, organizzata dalla 20th Century Fox in collaborazione con Centro Sperimentale di Cinematografia, impartiti, senza peli sulla lingua o giri di parole, da uno dei più affermati filmmaker dell’industria cinematografica americana. Con una voglia di voler trasmettere il proprio sapere a quelli che per lui sono già dei “giovani colleghi” così distante da quel modo di fare tristemente provinciale cui noi italiani siamo – purtroppo – abituati, quella concezione dell’esperienza come entità da tenere gelosamente custodita, sotto chiave perché non sia mai che un giorno un qualche allievo possa superare un maestro. Ma d’altronde lo sappiamo: parafrasando, meglio, riadattando il titolo di un celeberrimo romanzo di Cormac McCarthy poi divenuto film, l’Italia “E’ un paese per vecchi”. Motivo in più per cogliere al volo l’opportunità di ascoltare le parole di un regista come Fincher.

E mai come in questo caso è adeguato utilizzare il termine inglese “filmmaker”: come rimarcato durante l’incontro, fare cinema è un mestiere basato sul rispetto di tutte le persone coinvolte nella realizzazione di un lungometraggio. Un atto di “craftmanship”, di artigianato collettivo dove ognuno deve fare la propria parte, fare il proprio meglio col regista a coordinare, ma, soprattutto, a massimizzare e ottimizzare gli sforzi di tutti. Quanto di più distante da certe masturbazioni mentali radical chic di “autori” pretenziosi e sterilmente pomposi.

Prima dell’inizio della masterclass, gli studenti del Csc e i pochi esponenti della stampa presenti, hanno anche avuto modo di visionare 15 minuti di footage di Gone Girl – L’Amore Bugiardo, l’ultimo lungometraggio diretto da David Fincher basato sull’omonimo romanzo di Gillian Flynn – anche sceneggiatrice della pellicola – in arrivo il 18 dicembre nelle sale cinematografiche italiane.

Le scene mostrate, selezionate logicamente dallo stesso regista, sono sostanzialmente quelle iniziali e sono servite a calare i presenti nel peculiare contesto diacronico della vicenda. Da una parte il presente, incentrato sul personaggio di Nick Dunne (Ben Affleck) che comincia la mattina del quinto anniversario di matrimonio con sua moglie Amy (Rosamund Pike) ancora ignaro che di lì a poche ore la sua vita sarà travolta dalla scomparsa della donna.

Dall'altra i flashback dal diario di Amy che ci raccontano l'incontro – idilliaco, fiabesco e “zuccheroso” (capirete il perché di questo aggettivo quando vedrete il film, a meno che non abbiate letto il libro) – col suo futuro marito e l'inizio della crisi, tanto economica, quanto nella vita di coppia.

E poi ancora il presente, con Nick impegnato a dover affrontare l'inevitabile “gogna” mediatica e le indagini della polizia condotte dalla detective Rhonda Boney (Kim Dickens) e dal suo collega Jim Gilpin (Patrick Fugit), i cui occhi e espressioni paiono già voler dire: stiamo solo perdendo tempo, il colpevole è qua davanti ai nostri occhi.

E proprio mentre la tensione comincia a salire, le luci in sala si riaccendono per accogliere l'ingresso di Mr. Fincher.

David Fincher

Il film sembra una via di mezzo fra The Game e Zodiac da quel poco materiale che siamo riusciti a vedere.

Innanzitutto si tratta di un film che arriva diverso tempo dopo Zodiac e, soprattutto, The Game. Non è che stessimo cercando un look specifico, determinato per il film, però abbiamo dovuto fare delle scelte. Usando le macchine da presa digitali c'è un particolare modo di ripresa, fattori da tenere in considerazione, l'immagine che finisce nell'inquadratura non offre la stessa resa della pellicola. Ad esempio con i flash, le aree del quadro vengono illuminate in maniera non omogenea e abbiamo dovuto decidere se correggere o sistemare come fatto in altre situazioni e occasioni. Se un inquadratura è illuminata pazialmente poi bisogna decidere se unificare il tutto oppure no. Anche perché l'idea era quella di realizzare un film che fosse molto più vicino a un reality televisivo che a un film. Poi certo, nulla toglie al fatto che dovessero esserci delle sequenze molto più cinematografiche e rese più ricche da un punto di vista di ombre e di luci. Di base però volevamo restare ancorati a quel tipo di rappresentazione che conosciamo grazie ai reality. Immagini abbastanza dirette.

Come mai? Si tratta anche di una scelta di marketing? Perché questa scelta?

E' la storia che lo richiede. Necessita di questo look, molto più simile a quello che riscontrate nelle news, sui canali di notizie 24 ore al giorno. Fondamentalmente si trattava proprio di far vedere il suo comportamento (di Nick Dunne, ndr.) attraverso la lente della tv. Un personaggio che crede di presentare una determinata verità, la sua verità anche tramite il proprio comportamento che invece viene costantemente interpretato erroneamente da quelli che avrebbero dovuto giudicare la sua colpevolezza o la sua innocenza.

Quindi questa volta il digitale è stato scelto come strumento per fornire un certo stile al lungometraggio rispetto a un discorso meramente di carattere produttivo o di comodità nella post-produzione?

No, ho scelto di non usare la pellicola perché per me non è adatta. Il mio processo e flusso di lavoro non si sposa con la lentezza, macchinosità della pellicola, non gradisco dover fermare le riprese, l'azione per ricaricare la bobina dato che è un peso, un onere che si trasmette anche sulle spalle degli attori che si ritrovano a dover gestire pause in cui spostiamo macchine da presa da migliaia di dollari, pezzi di pellicola che vengono sprecati. Ti pare di sentire il rumore delle banconote che vengono stracciate e fatte a pezzi. Col digitale questo non avviene. Quando devi impiegare dei soldi, è logico tendere a evitare il rischio e non vuoi sprecare del girato. Il digitale ti permette di rischiare. Non impiego la pellicola perché non mi piace, non tollero il pensiero di doverla poi immagazzinare e conservare, prepararla, fare il montaggio, doverla spedire dall'altro capo d'America. Mi piace andare in giro con minuscola scheda da due Terabyte di dati che magari contiene i giornalieri di un'intera mattinata. Lo trovo estremamente efficiente, anche per la gestione del numero delle ore di girato. Con Gone Girl – L'Amore Bugiardo siamo arrivati quasi a 550 ore di girato. Che sono state poi ridotte a due ore e mezzo di film. Questo si traduce anche in un diverso sfruttamento degli attori, con Ben Affleck che sta dieci ore sul set e non sette nella sua roulotte e tre sul set a recitare la sua parte. Uso il digitale perché a me piace, lo preferisco, si sposa col mio modo di concepire il cinema e, anche se con i dovuti aggiustamenti avremmo potuto conferire al film quell'immagine granulosa tipica dei lungometraggi girati su quel formato, abbiamo scelto di non farlo per mantenere quell'approccio realistico che volevamo ottenere.

Hai girato così tante ore? E' Gone Girl – L'Amore Bugiardo il film con più ore di girato che hai fatto?

No, grossomodo è la mia media. Essendo circa 105 giorni di riprese con due macchine da presa, gli uni e gli zeri tendono ad accumularsi.

Infatti Affleck sembra distrutto in certi momenti! Lo hai ucciso!

Ma non credo si tratti di questo in realtà. Io penso che gli attori amino recitare e vogliano provare, sperimentare, trovarsi in situazioni in cui possono mostrare quello che sono in grado di fare. Un giorno sai che devi lavorare su delle scene, magari vuoi provare diverse inquadrature e possiamo testarne quattro o cinque in cui l'attore è da solo e poi appunto sperimentare dell'altro. Non voglio fare come quei registi che si limitano a un “No, non va bene, fanne un altra”. Così ammazzi davvero un interprete che poi magari finisce per mollare e andarsene. Mentre invece se tu gli spieghi dall'inizio che cosa vuoi fare, che vuoi girare delle determinate scene, hai un tot di ciak da effettuare in una determinata maniera, gli dici “Guarda, magari questa cosa dilla un un'altra maniera, guardando da quest'altra parte”... Quello che voglio è scolpire il comportamento dell'attore sul set.

Adoro il tuo modo di girare che ho potuto studiare grazie ai making of dei suoi film, sempre estremamente curati. E' evidente questa capacità, di certo non da tutti di raggiungere la perfezione nella direzione dell'attore arrivando a girare anche – cito il caso classico The Social Network per cui sei arrivato anche a 60 ciak – e si vedevano Jesse Eisenberg e gli altri attori letteralmente esausti. Ci sono registi per cui dopo due, tre inquadrature va già tutto bene. Pensi che possa essere un problema per gli attori, che queste sessioni di ripresa così intense possano in qualche modo snaturare le loro performance? Attori e attrici come Ryan Gosing o Meryl Streep non amano ripetere i ciak perché diventa tutto troppo meccanico a loro dire. Ti sei mai posto questo problema?

No!

La sala esplode in un tripudio di risate e applausi.

Poi il regista puntualizza:

In realtà penso che quello che stiamo facendo sia altamente, sacramente fraudolento. Si tratta di riprendere gente che sta riproducendo in maniera fittizia la realtà. Gli attori giocano a mascherarsi per guadagnarsi da vivere. Per loro è importante fare la cosa giusta per la pellicola e con questo intendo qualcosa che non ha a che vedere con la perfezione, ma con la credibilità. La perfezione è stupida, la perfezione non ha nulla a che vedere con l'umanità. Niente è realmente perfetto. Non stiamo giocando e non siamo nel mezzo di una guerra. Lavoriamo con degli attori e tutto quello che posso dire loro è “Sono sicuro che tu abbia delle fantastiche idee, e sono certo che ieri sera mentre te ne stavi nella vasca idromassaggio a riflettere hai capito perfettamente quello che hai intenzione di presentare con la tua performance oggi sul set. Ma questa è presunzione, e non include nulla di quello che accade intorno a te". Tutte le persone sul set possono avere, hanno delle idee sulla scena e le stanno portando con loro sperando di andare a creare qualcosa d'interessante. L'operatore di camera, l'addetto del dolly, tutti hanno delle opinioni valide su quello che succede intorno a loro e questo va a influenzare la lavorazione di un film. Anche loro, la sera prima potrebbero aver fatto dei Gone Girlragionamenti analoghi mentre stavano nella vasca da bagno. La presunzione che il tuo contributo di attore sia così importante e che tu possa trovare il senso di quello che devi fare solo dentro di te, soltanto ripetendo la scena tre o quattro volte, per me è quasi come un anatema, in relazione a quella che è la mia esperienza. Per me l'attore deve essere portato a un punto tale da non sapere neanche più come si chiama, ed è da lì, quando si giunge a questo punto che possiamo cominciare a fare sul serio. Quello che ti è venuto in mente può benissimo non calzare con ciò di cui ho bisogno per il film, magari c'è necessità di qualche aggiustamento, di qualche modifica e la nozione che tu possa risolvere il tutto con due, tre ciak non la concepisco. Se un attore ha la dimestichezza necessaria da non dover guardare dove stia la sedia su cui deve sedersi o gli occhiali che deve afferrare, allora tutto funziona a dovere. Deve metterseli e sedersi senza dover guardare la posizione degli oggetti. Nel momento in cui gli interpreti con cui lavoro hanno iniziato ad avere quel livello di confidenza, possiamo iniziare a ragionare sulle parole e sul loro significato. Per quella che è la mia esperienza in materia le parole nei film non devono dire, o non dovrebbero dire esattamente quello che sta accadendo. Nei miei lungometraggi in genere le parole mentono. Devono rasentare, sfiorare la verità, almeno per quel momento. Poi magari vai a rivederti il film in blu-ray e realizzi che “Oooh, diamine, stava mentendo tutto il tempo!”. Però prima non te ne sei reso conto. E non è qualcosa che riesci a ottenere con tre, quattro ciak.

Beh, peraltro ti ringrazio perché, contrariamente a altri tuoi colleghi, dai molta importanza ai making of delle tue pellicole. Danno la possibilità a filmmaker dall'altra parte del mondo di poster stare virtualmente con te sul set e osservare come lavori. M'interessa sapere se instauri un qualche tipo di rapporto con gli attori prima dell'inizio delle riprese. Diversi tuoi colleghi, da Francis Ford Coppola a Mike Leigh trascorrono anche un mese, come nel caso dell'autore inglese che ho citato, con i loro interpreti. Alcuni attori vogliono sentirsi amati dal loro regista, instaurare un particolare clima. Tu che modus operandi hai in riferimento a ciò?

Il rapporto con chi lavoro si basa, deve basarsi, su una forma incredibile di rispetto. Di enorme rispetto per le persone che vanno di fronte alla macchina da presa. Apparire davanti a un obbiettivo ti rende vulnerabile. E lo sappiamo tutti già dal semplice istante in cui ci scattano una semplice fotografia. C'è quell'lasso di tempo, quel frangente in cui si viene ripresi che trasforma una persona in una massa informe di gelatina. Rivedi la tua faccia e non ti piace, pensi “Magari non dovevo vestirmi così, non dovevo mettermi quella giacca!”. Quindi un attore che si espone davanti a una macchina da presa, esponendosi, va rispettato. Basta che penso a quando dico a una comparsa “Devi camminare verso quella porta, in quella direzione” e poi vedi che cammina così [Fincher mima una camminata assurda tipo robot, ndr.]. “Ma che fai, cammina semplicemente come una persona normale!”. Non è semplice come appare a prima vista. Ho incredibile rispetto per loro, però non eleviamolo a niente che stia al di sopra di una “mascherata”. Perché fondamentalmente è quello che stiamo facendo e loro sono persone che si travestono da qualcun altro. Devo essere rispettoso del loro tempo, dei loro ritmi, del processo di cui hanno bisogno per entrare nel personaggio e dare tutto quello che possono offrire, ma va considerato anche il tempo dell'operatore del dolly, del responsabile del montaggio, dello sceneggiatore, del tempo di tutti. E' un impegno collettivo. Io sono quello che si occupa della massimizzazione, dell'ottimizzazione. Sono qua per massimizzare il quantitativo di morsi dati alla mela ogni giorno. Voglio arrivare al punto in cui posso dire “Ok, abbiamo la scena, andiamo tutti a dormire adesso, abbiamo finito”. E' una cosa diversa dal “coccoliamoci”. Non voglio avere un rapporto con un attore diverso da quello che potrei avere con mio figlio, del “voglio che tu sia capace di...” se stai crescendo un figlio si suppone che tu lo faccia avendo, come base di partenza, l'idea che non sarai intorno a lui tutto il tempo, non sarai con lui per sempre. Ergo, non voglio avere un attore che dipende dalla mia continua approvazione, deve arrivare sul set già allattato e svezzato. Perché da me non otterrà nulla del genere, non sono qua per dirgli “Oh, vedrai, andrà tutto bene”. Sono qua per dirgli che “devi raggiungere quel fottuto segno a terra, devi piazzarti esattamente lì, perché se non lo fai, se vieni fuori fuoco e dobbiamo rifare la scena, tutte le persone sul set dovranno rilavorare a essa”. Voglio che tutti siano carichi e pronti per mettersi in marcia. E' un lavoro e credo che la più grande relazione fra regista e attore debba basarsi sul rispetto, sul rispetto di quello che con la loro performance possono fare per il tuo film, dire “Tengo a questo film e tengo al tuo lavoro. Però per quanto io possa voler essere tuo amico, non ti consentirò di mandare tutto a puttane". Perché se scelgo un attore è scontato che lo faccio perché credo nel suo talento, nella sua bravura, nella sua professionalità. Che possa interpretare il ruolo che gli ho assegnato. Quindi non penso che ci sia un'altra necessita che non sia il basare questa relazione sul rispetto. Gli racconti la storia del film quando ti metti seduto insieme a lui per fare le prove, gli illustri quello che vuoi ottenere, dove vuoi arrivare, il suo ruolo, la sua posizione all'interno dell'inquadratura, su cosa si deve concentrare di più, perché poi magari ogni attore ha delle capacità che riesce a dispiegare di fronte alla macchina da presa, mentre altre devono essere sviluppate, magari lavorando insieme a lui. Ma tutti devono essere in grado di creare qualcosa di unitario, di coeso. E il rispetto verso l'attore deve basarsi su questo. E devi essere sicuro che tutti siano “sulla stessa pagina” che tutti stiano seguendo gli altri, e non di ritrovarti con un gruppo di attori caratterizzati da una diversa formazione artistica ognuno dei quali se ne va per conto proprio. Non voglio ritrovarmi con nove persone che sembrano appartenere a nove film diversi, non voglio avere da una parte un Robert De Niro e dall'altra un Marlon Brando.. Quello che cerco di fare è intrappolare gli attori nell'ambra, creare e catturare questo qualcosa che sia uniforme, omogeneo.

[Poi rivolgendosi alla traduttrice, ndr. ] Prego, a te la traduzione. E ammetto che l'unica cosa più verbosa del sottoscritto, sono le mie stesse parole tradotte in italiano!

Ripensando a Alien 3, come ha influenzato la tua carriera? Ci sarebbe stato lo stesso David Fincher senza quel film? Come sei arrivato da Alien 3 a Se7en?

Ho cominciato facendo video musicali. Che hanno avuto un certo successo e poi sono passato ai commercial televisivi. E quando l'ho fatto, l'ho fatto alla mia maniera proprio perché volevano che fossero simili ai miei video. Ero abituato a assumermi le mie responsabilità e, fondamentalmente, fare quello che mi pareva. E mi sono ritrovato a lavorare al mio primo film senza poter fare nulla di quello che desideravo fare. Tutte le volte che mi guardavo in torno c'erano dozzine di persone che dovevano occuparsi di bilanciare ogni cosa, un rapporto di pesi e contrappesi, che è quello che di norma fanno gli studios quando devono finanziare e approvare questi progetti estremamente costosi.

C'è un gruppo ristretto di executive che deve approvare la fuorisucita di denaro e non si tratta di pochi spiccioli. Quindi a 26, 27 anni mi sono ritrovato a dire “Voglio fare così!” e a dover aspettare ogni volta che questo team di persone tornasse indietro da me a dire se si poteva fare o meno. Ed è per questo che Alien 3 si ritrova tutto questo bagaglio negativo. Così per il mio secondo film ho voluto esplorare un territorio tutto nuovo all'insegna del “Vaffanculo, non voglio mai più dover fare qualcosa del genere, dover chiedere il permesso. Preferisco chiedere scusa, se proprio devo”. E alla fine ho fatto quello che mi andava di fare, quello che mi andava a genio. Ed è finito con l'essere un film, Se7en, che è andato benissimo al botteghino. E non mi sono più ritrovato in una situazione di “controllo e bilanciamento” di quello che stavo facendo o volevo fare. Anche perché la responsabilità più grande è proprio nei confronti del film, perché sia quelli che ti danno i soldi per farlo, quelli che si piazzano davanti alla macchina da presa per recitare comparendo poi sullo schermo, capiscono chiaramente che il fattore di maggior peso è la pellicola stessa, quello che c'è dentro, a quel punto ottieni i soldi e le performance perché capiscono che per te conta solo la qualità.

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Volevo sapere come lavori durante le riprese. Come scegli il posizionamento della macchina da presa? Per scegliere le inquadrature parti da un'idea che hai in testa o dalla messa in scena sul set?

Parto dalle prove giornaliere e durante le prove mi metto già a pensare a quello che voglio ottenere. Comincio a dialogare con gli attori, parlo molto e spiego loro quello che ho in mente permettendo agli attori di discutere e/o contestare le scelte che propongo. Mi possono chiedere: “Scusa ma perché devo salire dalla cantina?”. I loro commenti alle mie indicazioni sono fondamentali. Il 90% del concetto di “regia” per me è sbarazzarsi di tutte quelle scelte che possono portare confusione allo sviluppo della storia. Se tu non hai una risposta a un argomento portato alla tuaattenzione da un attore... allora vuol dire che quell'osservazione merita la tua attenzione. Tu puoi avere un'idea ma il mio metodo è poi porla agli attori e permettere loro di verificare se c'è una logica al suo interno. Una volta sul set ho dei pensieri abbastanza specifici sulla ripresa master (inquadratura d'insieme che riprende l'ambiente di scena e le azoni dei personaggi al suo interno, N.d.r). Ma il master stesso è sempre qualcosa che può evolvere grazie alla sceneggiatura e al senso della scena. Il rapporto psicologico tra i personaggi in scena mi può aiutare molto a capire chi debba avere in quel momento il centro del palcoscenico e poi da lì pensare meglio al posizionamento della camera. Non è mai un segreto. Tu hai un'idea, porti i tuoi alleati creativi all'interno della stessa, loro propongono delle modifiche, tu rimani flessibile. Io ho sempre bisogno che gli attori abbiano la loro idea e il diritto di esercitare una paternità autoriale sui personaggi che interpretano. Hanno il diritto di commentare sulle ragioni che portano il loro personaggio a fare una certa determinata cosa dentro una certa determinata scena. Se mi accordo che questa metodologia produce dei comportamenti indulgenti o eccessivamente autoreferenziali, tagli corto e dico “No, no... adesso si fa così”. Tornando al master... una volta che arrivo a quello stadio del processo è abbastanza facile per me capire dove stringerò per avere dei dettagli e con l'aiuto dello script supervisor arrivo abbastanza velocemente al bandolo della matassa. Lavoro con due camere quindi ho inquadrature precise sulle direzioni degli sguardi degli attori e una prospettiva altrettanto precisa sulla stessa scena vista da più lontano. Mi piace molto l'idea di mostrare un proscenio allo spettatore nonostante a Hollywood ci sia la regola che in un dialogo devi stare con la macchina in mezzo alla conversazione. A me invece piace vedere da lontano e guardate che questo aiuta molto gli attori a essere maggiormente concentrati. Come regista mi rendo conto che voglio “l'animale” presente nella scena e non la prova individuale. Cerco un organismo, un'idea complessiva che venga fuori da quella scena.

Perché lo stile è cambiato così tanto da Fight Club a The Social Network o Millenium? Questi cambiamenti sono causati dal passaggio al digitale?

E' fondamentale cambiare l'approccio a seconda della storia che vuoi filmare. Da The Social Network abbiamo cominciato a ridurre le immagini che giravamo. Da 4k passavamo a 2k potendo stabilizzare l'inquadratura come volevamo. Molte delle inquadrature che sarebbero state in Fight Club, dentro The Social Network sarebbero state buttate. Puoi salvare delle intere inquadrature e grandi prove degli attori in questo modo. Puoi difendere il fotogramma dall'ingresso del microfono di presa diretta, per esempio. Sicuramente il digitale ha molto a che fare con il cambiamento del mio metodo di lavoro come per esempio la scelta di interrompere improvvisamente gli attori per dire loro di ricominciare daccapo una scena. E' una cosa che con la pellicola non potevamo permetterci perché una volta che filmavi dovevi filmare un tot per forza, visto quanto poteva costare. Con il digitale puoi organizzare tutto benissimo. Per quanto riguarda il mio stile... non tendo ad analizzarmi così tanto. Non dimenticate il fatto che se la luce di Millenium è diversa da quella di The Social Network... è perché il primo lo abbiamo girato in Svezia. Se i film fotografati da Sven Nykvist hanno quella luminosità particolare... è perché si trovava in Svezia. Ad essere onesto, non vedo i miei film una volta che sono finiti. Non sono oggettivo sul mio lavoro. Quando li faccio possono studiare un'inquadratura anche 100 volte in una giornata ma una volta che li ho finiti non tendo a riguardarli. Non sono consapevole dei miei cambiamenti nello stile. Non sono consapevole di una mia possibile evoluzione. Forse dovrei esserlo di più.

Gone Girl

Come è andata la terza collaborazione con Trent Reznor e Atticus Ross per quanto riguarda la colonna sonora?

Su The Social Network abbiamo tagliato e montato il film per poi dire ai miei montatori di lavorare utilizzando l'album Ghost I-IV di Reznor e Ross come tema portante. C'erano 5 o 6 traccie di Ghost I-IV che sentivo a ripetizione per cui l'abbiamo spalmata su The Social Network. Per quanto riguarda quel film... l'ho chiamato chiedendogli se volesse lavorarci e lui mi ha subito avvertito: “Oh no... amico... ho un sacco di cose da fare adesso”. “Ok, ok... nessuna pressione” gli ho risposto. Poi, sei mesi dopo, mi chiede al telefono: “Vuoi ancora la mia colonna sonora?” e io: “Certo!”. Gli ho fatto vedere il film finito e di solito lui è totalmente imperscrutabile. Ha sempre la stessa faccia. Lui può guardare il tuo film, poi alzarsi impassibile e dire: “Ok, ciao... io vado”. Ha cominciato a lavorare subito a L'amore bugiardo mandandomi strani mp3. A volte c'erano bizzarre melodie, a volte suoni così particolari da sembrare ghiaia frullata. Ho inizialmente inserito questi pezzetti di musica negli spazi del film. Per The Social Network volevo una colonna sonora per un film di John Hughes. Una rivincita dei nerd con un orribile sintetizzatore datato 1986. Per L'amore bugiardo, quanto Trent ha visto il film... ha avuto stranamente una reazione. E' uscito sorridendo e dicendomi: “Amico... questo film è cattivo”. Gli ho detto che volevo per la colonna sonora una sua versione di un tema in loop che puoi sentire in una Spa mentre ti massaggiano. Un loop atonale e quieto che ti dice di calmarti, dormire e pensare che tutto sia ok.
 "Benvenuti alla SPA di Reznor e Ross!". Non so se attirerebbe clientela!

Tornando ai tempi di Panic Room.... all'epoca il tuo lavoro fu paragonato a quello di Hitchcock. Che ne pensi di questo parallelismo?

Probabilmente Panic Room è l'unico mio film che si può definire hitchcockiano per l'ironia crudele della situazione e perché gli spettatori sanno di più dei personaggi. Si rispetta pertanto la regola base della sua legge della suspence. In Panic Room certamente Hitchcock era presente. Volevo fare quel film proprio perché mi divertiva questa svolta nella mia filmografia. Non avevo mai lavorato a un film in cui gli spettatori sapessero molto della storia. Avevo fatto film in cui era impossibile per lo spettatore capire di più dei personaggi. Non c'era possibilità in Se7en di intuire i piani di John Doe. Non c'era alcuna possibilità di capire in The Game cosa stesse succedendo a Michael Douglas. Non c'era possibilità di prevedere in Fight Club che i due personaggi protagonisti fossero in realtà uno solo. Il film era sempre un passo avanti agli spettatori. Con Panic Room ho dato tutte le informazioni per avere spettatori molto coinvolti e simultaneamente in scena insieme ai personaggi. Esattamente come faceva Hitchcock. Per cui... se a lui va bene questo paragone... a me va bene.

Cosa pensi della serie tv da te prodotta House of Cards e della crescita qualitativa del prodotto televisivo in generale? Che rapporto c'è oggi tra cinema e televisione?

Non è una competizione. Sarebbe come dire che la musica che sentiamo dalla radio in macchina, rovini l'opera. Sono due prodotti diversi per una diversa fruizione. Una fruizione è disegnata per essere sentita nella tua macchina mentre l'altra fruizione comporta stare tre ore a teatro. Registicamente non c'è differenza per me tra tv e cinema. Per quanto riguarda House of Cards ho lavorato come lavoro a un film: controllare che il cast sia perfetto prodotto che vada in onda per 3-4 anni; verificare che la trama abbia sempre un senso; assicurarsi che il sottotesto del prodotto venga poi concretizzato correttamente da ogni singola scena. La tra cinema e televisione è semplice: il cinema non ha tempo per lo sviluppo dei personaggi mentre la tv non ha i soldi per far esplodere gli aeroplani. Se vuoi esplorare un essere umano in tutte le sue contraddizioni, il cinema non va più bene. Ti siedi a una riunione produttiva con chi ti ha dato 50-60 milioni per fare un film e ti senti dire: “Ma perché questo personaggio cambia così radicalmente? All'inizio del film aveva un'altra personalità. Perché cambia da pagina 2 a pagina 26?”. Tu provi a spiegare loro che tutto quello serve all'arco narrativo del personaggio e alla sua incapacità di mantenere una coerenza con i suoi convincimenti iniziali e, sempre e comunque, ti senti rispondere: “Ma noi non abbiamo tempo per questi cambiamenti del personaggio... dobbiamo far esplodere tutta Manhattan!”. Nella televisione hai tanto tempo perché cosa solo 5-6 milioni all'ora e quindi hai molta più possibilità di esplorare un personaggio. Sono mondi diversi ma tu come regista devi comunque portare la stessa cassetta degli attrezzi di sempre per fare un buon lavoro.

Cosa ne pensate? Potete dircelo nei commenti sottostanti o in questo topic del forum cinema.

Il romanzo è incentrato sulle vicende di un uomo la cui moglie scompare il giorno del quinto anniversario di matrimonio: tutte le prove portano a lui come omicida. La pellicola uscirà il 3 ottobre 2014 negli USA, il 18 dicembre in Italia. Nel cast anche Rosamund Pike, Tyler Perry e Neil Patrick Harris.

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