Prisoners ci ricorda che ci sono lockdown peggiori del nostro
Prisoners di Denis Villeneuve è un thriller emotivamente devastante basato sul concetto di “prigionia” – reale o nella propria testa
Oggi quando pensiamo a Denis Villeneuve ci vengono automaticamente in mente parole come “fantascienza” o “Blade Runner” o “speriamo che non faccia disastri con Dune che è un universo narrativo che merita rispetto e un adattamento all’altezza”, ma quando il nome del regista canadese cominciò a circolare una decina di anni fa erano altri i termini che si utilizzavano per definirlo: se escludiamo i due lungometraggi d’esordio, diretti tra il 1998 e il 2000, la carriera di Villeneuve è stata all’insegna del thriller in tutte le sue forme almeno fino al 2016, quando gli fu affidato Arrival e la sua direzione artistica cambiò bruscamente. Polytechnique, Incendies, Enemy e Sicario sono quattro film che, ciascuno a modo loro, giocano con il genere, la costruzione della tensione, la violenza e l’esplorazione della mente umana in condizioni estreme, ma il vero manifesto della prima fase della sua carriera potrebbe essere il più tradizionale e meno contaminato del lotto, Prisoners, un film che parla di gente in lockdown – un lockdown molto peggiore di quello che stiamo vivendo in questi mesi.
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A investigare sul caso è il detective Loki (Jake Gyllenhaal, non Tom Hiddleston!), e i primi sospetti ricadono sul povero Alex Jones (nessun riferimento, almeno crediamo), un ultratrentenne con il cervello di un bimbo di dieci anni che vaga per la città su un camper scassato e che è altrimenti affidato alle cure della zia Holly (Melissa Leo). Il camper di Alex è stato visto nella strada dove sono sparite le bambine, e ha provato a scappare quando è stato avvicinato dalla polizia: facile sospettare di lui, più difficile è farlo parlare, perché come spiega la zia Holly “da piccolo ha avuto un incidente e da allora sceglie le parole con molta attenzione”.
Fin qui abbiamo raccontato i primi dieci/quindici minuti di un qualsiasi thriller generico uscito negli ultimi cento anni, ma Prisoners non è solo il racconto di un rapimento e delle indagini che ne seguono: è un gigantesco conto alla rovescia (a un certo punto Hugh Jackman spiega che dopo una settimana dalla sparizione le chance di trovare una persona viva si sono ridotte del 50% e dopo un mese arrivano a zero) fatto di frustrazione, attesa e incapacità di agire, una prigione sia per il detective Loki, che sbatte la testa contro il mutismo di Alex, sia soprattutto per i genitori di Anna e Joy, che vedono in Loki un ostacolo, un burocrate, uno che non sa fare il suo mestiere nonostante sia stato presentato come il poliziotto che ha risolto il 100% dei casi che gli sono stati assegnati.
Dal momento in cui Anna e Joy spariscono, non sappiamo più nulla di loro fino alla risoluzione finale; non le vediamo, non le sentiamo, non abbiamo indizi su dove possano essere finite; Villeneuve non ammicca mai al suo pubblico e gode a lasciarlo nel buio tanto quanto i suoi personaggi, perché gli piace l’idea di vedere come reagiscono a una situazione così estrema. In questo modo Prisoners non deve neanche fare lo sforzo di scegliere chi sia il vero protagonista, e diventa la storia parallela di un poliziotto che indaga e di un padre disperato che rapisce il presunto rapitore e lo chiude in una casa abbandonata per torturarlo sperando che ceda e dica la verità. È la storia di come di fronte a una situazione eccezionale, impossibile, inconcepibile, anche le persone più apparentemente normali possano farsi prendere da qualcosa che ci viene da definire “panico creativo”: bisogna fare qualcosa, qualsiasi cosa, e questa spinta calpesta anche ogni etica o morale, al punto che quando diventa chiaro che non è stato Alex a rapire le bambine (e non ci vuole molto per arrivare a quel punto) viene il dubbio che Prisoners sia segretamente la storia di un sadico torturatore che aspettava solo l’occasione buona per dare sfogo alla sua violenza.
Villeneuve racconta questa doppia storia ambientandola sotto la pioggia e la neve della Pennsylvania, per aggiungere uno strato di confusione visiva e costringere spesso i suoi personaggi a rifugiarsi in ambienti claustrofobici (una stanzetta, l’abitacolo di una macchina) e spesso incorniciati da un pezzo di vetro: Prisoners è un film di gente prigioniera – di altra gente o di se stessa – e che vive nell’impotenza e nella frustrazione, e Villeneuve usa ogni spazio a sua disposizione per veicolare quest’idea. Il risultato è tanto più efficace perché all’atmosferacon contribuiscono sia Roger Deakins (che sarà il suo direttore della fotografia anche in Sicario e in Blade Runner 2049, che gli frutterà il primo Oscar della carriera) sia il compianto Jóhann Jóhannsson (che scriverà la colonna sonora anche di Sicario, Arrival e ancora Blade Runner 2049); il primo in particolare fa un lavoro miracoloso con le luci, che sia il blu livido della notte piovosa, il bianco sporco della stazione di polizia o il color carta da parati delle villette di provincia nelle cui stanze si ambienta gran parte del film.
Se non conoscevate Prisoners e leggendo fin qui vi siete incuriositi, be’, ne siamo contenti perché abbiamo raggiunto il nostro scopo. Un’unica avvertenza prima di lasciarvi alle vicende di Anna e Joy: se siete in cerca di speranza o anche solo di un raggio di sole state alla larga dal film, che, come si addice a un thriller in famiglia girato da un tizio che è stato definito “il David Fincher canadese”, non ha un’oncia di buonumore, umorismo o gioia di vivere. Prisoners è un labirinto, popolato da gente che soffre e che in qualche caso soffriva anche prima che sua figlia venisse rapita, ed è talmente costruito sull’idea della banalità del male e sul sottile confine che separa un padre di famiglia da un potenziale omicida che quando si arriva alla fine e si scopre cos’è successo si rimane quasi delusi perché... ma abbiamo già detto troppo, quindi faremo come Alex e ci chiuderemo in un ermetico silenzio.