Una Poltrona per Due di John Landis, un classico che non stanca mai. Ecco perché

C'è un rito natalizio che si ripete ogni anno ed è il passaggio televisivo di Una Poltrona per Due di John Landis

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C'è una ritualità italiana che ormai si è imposta nella vigilia di Natale quasi come i menu classici della nostra cucina legata alla festività più importante dell'anno.

Si possono mangiare stasera anolini in brodo, ravioli di carne, capponi al forno, stinco di vitello, spaghetti con le cozze, capesante gratinate, insalate di mare o capitoni in umido a seconda che vi troviate a Nord o a Sud dello stivale.

C'è una cosa che però sarà uguale per tutti: Una Poltrona per Due (1983) di John Landis trasmesso in tv.

È una tradizione che si è imposta dalla fine degli anni '90 come ha ricordato ieri Francesco Zaffarano su La Stampa dando addirittura i numeri come avrebbe fatto Rino Tommasi: 11 volte negli ultimi 18 anni trasmesso il 24 dicembre e le altre 7 volte tra il 23, il 25 e il 26. Data di inizio della ritualità tv: 1997.

Il nostro Andrea Bedeschi ci spiegò benissimo già nel 2013 perché lo dovremmo rivedere anche nel 2015.

Cosa c'è da aggiungere oggi?

Forse solo una piccola riflessione su quanto conti la rilettura dei classici e la forma psicofisica perfetta del direttore d'orchestra per produrre un testo ancora oggi così visitato dalla nostra attenzione.

Il classico riletto è Il Principe e il Povero di Mark Twain passato per la penna acuta della coppia di sceneggiatori Timothy Harris e Herschel Weingrod, pronti a trasformare il romanzo ambientato nel XVI secolo di Twain in una commedia di conflitto di classe nella Philadelphia post-Rocky Balboa dei primi anni '80 dove non a caso campeggia già nel montaggio iniziale la statua dello stallone italiano come segno di un american dream possibile se non auspicabile legato all'umile che sale letteralmente le scale verso l'olimpo della società Usa.

È sempre possibile, si dice, per i nostri amici nordamericani. Da Il Grande Gatsby di Fitzgerald a Chance il Giardiniere di Oltre il Giardino (1979) di Ashby dalla pagina scritta nel 1971 da Jerzy Kosiński con Being There.

Qui dunque abbiamo il ricco bianco vincente Louis Winthorpe III (Dan Aykroyd) e il nero povero mendicante Billy Ray Valentine (Eddie Murphy) nei panni dei nuovi Edoardo VI e Tom Canty abili a scambiarsi il ruolo per via della somiglianza fisica?

Mmm... non troppo. Il testo di Twain è assai vicino al Basile de La Cerva Fatata ne Lo Cunto de li Cunti diventato immagini ne Il Racconto dei Racconti di Matteo Garrone (è una delle favole di Basile che il regista romano ha estratto dal voluminoso testo originale). I corpi di Tom e Edoardo VI si somigliano.

Nel testo cinematografico di Una Poltrona per Due no: Louis Winthorpe III è un prodotto wasp perfetto della Ivy League e le guance floride e la frangia composta del canadese Aykroyd simboleggiano una East Coast pasciuta e vincente.

Billy Ray Valentine è il nero sardonico figlio dello Jim di Huckleberry Finn di Twain passato per la rivoluzione black nello show biz capitanata da Sammy Davis Jr, Sidney Poitier, Melvin Van Peebles, Richard Pryor e quello che sembra essere il suo figlio più cool, sereno e patinato: Eddie Murphy.

Winthorpe e Valentine sono simili solo nel talento e nell'intelligenza. Ma uno è cresciuto in ambiente amichevole (il bianco) mentre l'altro ha sempre dovuto strisciare per i marciapiedi di Philadelphia anche più di Rocky Balboa (il nero).

Su di loro fanno una scommessa sociale i fratelli tycoon nonché speculatori finanziari Duke: il talento è genetica (tesi razzista di Mortimer Duke) o educazione (tesi progressista di Randolph Duke)? Un dollaro è la posta. Per stabilire chi vince occorre solo scambiare i ruoli mettendo Valentine nell'ambiente di Louis e viceversa.

La storia, dunque, è nella nostra Storia. Va bene così. Più è profonda la fabula, più il testo è forte e robusto perché in grado di attraversare anni, se non secoli, incolume e indistruttibile. George Lucas ne sa qualcosa, no?

La forma psicofisica perfetta ce la mise il direttore d'orchestra: John Landis. Aveva solo 32 anni quando lavorò al film ma soprattutto veniva da una serie di successi/capolavori che lo avevano reso potente e indistruttibile quasi quanto un testo classico.

I sei anni landisiani dal 1977 al 1983 sono sei anni d'oro difficilmente replicabili in altre filmografie di registi anche più riconosciuti e prestigiosi di lui. Tutto cominciò con Ridere per Ridere per poi continuare con Animal House, The Blues Brothers, Un Lupo Mannaro Americano a Londra e il videoclip Thriller.

Landis amava la classicità hollywoodiana. Era un regista cinefilo figlio del primo metacinema di Billy Wilder con un culto tarantiniano per la celluloide

Landis sembrava inarrestabile e preciso come un raggio laser. Sul set la sua ilarità era contagiosa e sembrava aver capito perfettamente cosa volesse il pubblico di quel preciso contesto storico di passaggio dai crudi '70 ai più gioviali '80. Era il regista giusto nel posto giusto. Era un middle-class man di nascite umili che come Steven Spielberg, George Lucas e Rocky Balboa aveva pure lui salito le scale del successo della società nordamericana.

Capiva quindi la storia ed era un figlio della Storia. Landis amava la classicità hollywoodiana. Era un regista cinefilo figlio del primo metacinema di Billy Wilder con un culto tarantiniano per la celluloide tale da portarlo a richiamare sul set due veterani come Ralph Bellamy e Don Ameche. Adorava anche la classicità letteraria di Mark Twain tanto che un suo sogno nel cassetto fu sempre quello di trasportare Un Americano Alla Corte di Re Artù al cinema come si evince dalla scena di Un Lupo Mannaro Americano a Londra in cui l'infermiera Alex legge il classico di Twain al paziente David prima dell'incubo aperto da Kermit del Muppet Show.

Ma Landis aveva pur sempre 32 anni ed era figlio anche della contestazione, della rottura, della distruzione e palingenesi attraverso il riformismo progressista (da molto giovane si diede all'attivismo sociale come David O. Russell) e la voglia di rompere le barriere sociali. Amava il cambio di marcia del Saturday Night Live (1975) di Lorne Michaels nato dal Flying Circus (1969) dei Python e apprezzava i "nuovi mostri" della comicità come Belushi (già avuto e manipolato bene per il grande schermo), Aykroyd (non lo ebbe per Animal House ma riuscì ad ottenerlo per Blues Brothers e, appunto, Una Poltrona per Due) e quel giovane afroamericano che riuscì ad entrare al Saturday Night Live grazie a una forza di volontà, invadenza e autostima degna dei geni o degli psicopatici. Il suo nome era Eddie Murphy.

A questi elementi di classicità, forma psicofisica eccellente del direttore d'orchestra e "nuovi mostri" della comicità aggiungete la sovversione erotica di un simbolo di purezza slasher come la rampolla di Hollywood Jamie Lee Curtis non più vergine di Halloween (1978) ma battona dal cuore d'oro e dal seno marmoreo, in grado, come tante eroine landisiane, di prendere il maschio e guidarlo fuori dal pericolo con una bella risata e un corpo da favola.

Giusto... la donna. Come la costumista Deborah Nadoolman, moglie del direttore d'orchestra (condotta con brio da Elmer Bernstein) Landis che al nero Murphy fa indossare quella sgargiante felpa rossa che serve come il pane per enfatizzare il corpo di un intruso black dentro la Philadelphia wasp.

Tutto questo è Una Poltrona per Due. Un film che è visto su una poltrona da quasi tutto il mondo occidentale.

Soprattutto a Natale.

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