PlayStation VR, è già il tempo dei primi bilanci

Non il successo interplanetario sperato da Sony, ma PlayStation VR, in questi primi mesi di commercializzazione, ha già dimostrato di sapersela cavare in molte situazioni

Lorenzo Kobe Fazio gioca dai tempi del Master System. Scrive per importanti testate del settore da oltre una decina d'anni ed è co-autore del saggio "Teatro e Videogiochi. Dall'avatara agli avatar".


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Lo abbiamo imparato a caro prezzo: la realtà virtuale non è gratis. Non ci riferiamo, ovviamente, al salato conto da saldare per portarsi a casa un esemplare di PlayStation VR, nella migliore delle ipotesi, un PC degno di questo nome più Oculus Rift o HTC Vive, nel caso puntiate al top di gamma e siate sprovvisti dell’occorrente. Parliamo di un costo cognitivo, introspettivo, potremmo quasi dire emotivo.

Collegati i cavi del caso, ci si siede eccitati di fronte allo schermo, già consapevoli che non ci servirà a un bel niente. Il tempo di inforcare l’add-on, di mettere a fuoco l’immagine e si insinua immediatamente la sensazione che ogni desiderio espresso da bambini, magari sorto dopo la visione di un avveniristico film sci-fi, pare essersi magicamente realizzato, incantati spettatori dell’attualizzazione di un futuro prossimo, sempre immaginato, finalmente a portata di mano. Viene naturale sgranare gli occhi, mulinare le braccia nel vuoto, nel vano tentativo di afferrare qualcosa che, infondo lo sappiamo benissimo, non esiste, non c’è.

In questi primi mesi di PlayStation VR, con la casa sempre piena di amici appassionati o semplici curiosi, siamo stati testimoni di ogni genere di reazione, tutte accomunate da uno stupore fanciullesco, di chi (ri)scopre un mondo nuovo, con leggi fisiche e percettive proprie, tra chi avrebbe preferito restare imprigionato per sempre in quell’illusione digitale, a chi ha scelto di liberarsene quasi all’istante, colto da un’improvvisa overdose da cui ritrarsi, prima di correre il rischio di incamminarsi in un pericoloso tunnel di dipendenza.

Chiunque indossi un qualsiasi visore per la realtà virtuale, dicevamo, paga un prezzo. Non tanto perché si crea un’implicita demarcazione, un confine invalicabile tra ciò che c’è stato prima e un indefinibile dopo. Da questo punto di vista l’evoluzione è evidente, ma non è una rivoluzione. Nonostante si tratti dei primi esperimenti, sembra già evidente che questa nuova anima dei videogiochi sia destinata ad affiancare, non a soppiantare, quella che potremmo ormai definire “classica”. No, il prezzo da pagare si palesa nella necessità, nell’obbligo di riconsiderare e riaggiornare le categorie, le classificazioni, i canoni con cui, sino ad oggi, abbiamo normalmente filtrato, considerato, giudicato ogni prodotto.

[caption id="attachment_162065" align="aligncenter" width="600"]PlayStation VR foto Secondo una ricerca effettuata da 01consulting, il 30% del mercato legato alla realtà virtuale è detenuto da PlayStation VR. Seguono Oculus Rift con l’11%, Samsung con il 7%, HTC con il 6%. Il resto se lo spartirebbero società, aziende e software house che sviluppano tecnologie di settore.[/caption]

L’errore più facile, la tentazione che insorge soprattutto in chi ha deciso, più o meno volontariamente, di non salire sul treno della realtà virtuale, è di bollare ogni esperienza come una tech demo, lo stadio embrionale di giochi che arriveranno forse un domani, quando le periferiche saranno tecnologicamente più avanzate e gli sviluppatori avranno preso dimestichezza con questo nuovo linguaggio. C’è una mezza verità, in effetti. Anche per i team di sviluppo non è facile e servirà pratica prima di capire esattamente cosa funzioni e cosa sarebbe meglio accantonare quando si decide di realizzare un gioco in VR. Il ribaltamento della prospettiva è effettivamente spiazzante e richiede un totale riesame dei concetti che stanno alla base del level design, solo per dirne una.

"L’errore più facile, la tentazione che insorge soprattutto in chi ha deciso, più o meno volontariamente, di non salire sul treno della realtà virtuale, è di bollare ogni esperienza come una tech demo"

La mezza bugia, di contro, è che la realtà virtuale ha già riscattato il suo diritto d’esistenza, ha un modo di esprimersi tutto suo e, soprattutto, funziona, persino alla grande in certi casi. Bisogna solo tendere l’orecchio, inclinare la testa per guardare le cose dalla giusta angolazione, riclassificare, come dicevamo poco sopra, le esperienze che ci vengono offerte.

Tanto per cominciare, bisogna togliersi dalla testa l’idea di poter paragonare il prezzo della stragrande maggioranza dei giochi, con la longevità. La valuta di scambio, un po’ come per l’arte figurativa, è l’istante, l’emozione, il colpo d’occhio. Là dove un JRPG fa della profondità delle meccaniche ludiche e della caratterizzazione del character design i suoi punti di forza, un titolo in realtà virtuale deve quasi arrivare a stordire lo spettatore, senza mai essere ridondante, opprimente, asfissiante.

Ne abbiamo parlato a proposito nelle rispettive recensioni, l’esempio più evidente, in questo senso, ce lo hanno offerto Batman Arkham VR e Robinson: The Journey. La creatura di Rocksteady si completa nell’arco di tre ore al massimo. Molto poco, utilizzando i classici metri di giudizio. Eppure l’avventura è straordinariamente ritmata, cadenzata con maestria, sempre stimolante nel proporci un nuovo giocattolo che ci faccia realmente sentire il miglior detective del mondo alle prese con un caso da risolvere a tutti i costi. Robinson: The Journey, al contrario, pur vantando valori produttivi estremamente maggiori, anche in termini di longevità, proponendo qualcosa di più classico, compresa una lenta e a volte noiosa esplorazione, arriva quasi a disorientare il videogiocatore. Si tratta comunque di una splendida epopea in un mondo meraviglioso, ma finisce per affaticare eccessivamente mente e corpo. Non è una questione di “durata”, beninteso, è il ritmo a fare la differenza.

RIGS: Mechanized Combat League, Driveclub VR e Rez: Infinite, in questo senso, ci offrono un altro pratico esempio. Al di là della motion sickess, che inevitabilmente insorge nell’utente poco avvezzo alla realtà virtuale (sì, perché nel mentre si è scoperto che il senso di nausea e disorientamento diminuisce con “l’allenamento”) tutti e tre, pur garantendo campagne relativamente generose di contenuti, spezzettano l’esperienza in brevi, quanto intense sessioni. Non solo: il mondo virtuale che si espande tutt’intorno al videogiocatore, diventa parte integrande del gameplay, ulteriore strumento tattico soprattutto nelle mani dei più esperti.

Ci sono altre due declinazioni di realtà virtuale che, con estremo interesse, abbiamo visto svilupparsi in questi primi mesi di PlayStation VR. Da una parte, sul PSN, si sono resi disponibili al download gratuito una manciata di cortometraggi animati che, sfruttando la possibilità di cambiare punto di vista, restituiscono, di fatto, una tenue interattività che rende l’utente qualcosa di più che un semplice spettatore. Allumette, attualmente il più riuscito di questi prodotti, costringe a seguire l’azione avvicinandosi e allontanandosi dal centro della scena, facendoci sentire i veri registi di questa storia strappalacrime.

Dall’altra diverse produzioni, affianco alle modalità classiche, propongono alcuni livelli da giocare con addosso il PlayStation VR. Parliamo, per esempio, di Call of Duty: Infinite Warfare o di Rise of the Tomb Raider: 20 Year Celebration. Anche Bound rientrerebbe in questa casistica, ma Plastic Studios, software house responsabile del titolo, ha optato per un approccio ancor più drastico. Grazie ad un corposo aggiornamento, è possibile (ri)giocarsi l’intera avventura sfruttando la periferica. Pur con il ripresentarsi dei numerosi limiti e difetti segnalati nella nostra recensione, all’epoca dell’esordio, con questa aggiunta sembra di avere a che fare con qualcosa di nuovo, tanto più che uno dei pilastri della produzione, l’art design, nello splendore della VR, abbaglia e ammalia con rinnovata forza l’utente.

[caption id="attachment_165885" align="aligncenter" width="600"]Werewolves Within screenshot A sorpresa, PlayStation VR sta rifondando il concetto di socializzazione tramite i videogiochi. Prodotti come Werewolves Within, per esempio, creano delle vere e proprie hub virtuali in cui, oltre a consentire lo sviluppo del gioco secondo le regole previste, si possono scambiare quattro chiacchiere con conoscenti e non, tramite avatar digitali.[/caption]

I dati vendita dei visori attualmente disponibili sul mercato parlano chiaro: pur non essendo un disastro, la realtà virtuale non è affatto un successo. Il Gruppo NPD (azienda che analizza gli andamenti di mercato) e il sito internet SuperData, che si occupa di previsioni di vendita di software e hardware, hanno entrambi rivisto al ribasso le stime sui pezzi consegnati agli acquirenti di ciascun add-on. In particolar modo PlayStation VR è passato da 2,6 milioni di esemplari distribuiti entro la fine del 2016 a soli 750 mila.

Totalmente inutile, inoltre, nascondere i tanti limiti dei visori. Anche soprassedendo sulla motion sickess e sul prezzo, si tratta di periferiche che pesano sul collo e sulla schiena, la cui risoluzione non è all’altezza degli schermi in HD (figurarsi rispetto a quelli in 4K), i cui giochi soffrono ancora di inevitabili difetti di gioventù. Per questo Resident Evil 7 (e in minor parte Ace Combat 7) potrebbe essere il punto di svolta, il primo brand affermato che, pur solo facoltativamente, si affida al PlayStation VR per rinnovarsi e inaugurare un nuovo corso.

Male che vada, lungo questo 2017 che molto ci dirà sul destino di questa tecnologia, ci divertiremo a sfruttare i nostri PlayStation VR con altre “tech demo” o modalità ad hoc come appendici di produzioni canoniche. Nella migliore delle ipotesi, al contrario, esperimenti come Robinson: The Journey aggiusteranno il tiro, introducendoci verso un futuro che, ce lo assicurano titoli come Batman Arkham VR, esiste già. Anche se i numeri ancora non lo dicono, il successo della realtà virtuale sta già dando i suoi frutti.

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