Picnic a Hanging Rock e il bello di non spiegare le cose

Picnic a Hanging Rock è uno dei più bei film australiani di sempre, e il più misterioso: non spiegare nulla è uno dei suoi segreti

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Picnic a Hanging Rock è su Prime Video

In A Dream Within a Dream, il documentario di Mark Hartley sul making of di Picnic a Hanging Rock, il regista Peter Weir racconta un aneddoto illuminante. Siamo ai primi screening americani del film, quelli a cui non partecipa il pubblico ma le distribuzioni, che devono decidere come e quanto far circolare la pellicola; il film inizia, prosegue, finisce, e quando compaiono i titoli di coda un distributore si alza infuriato e scaglia la sua tazza di caffè contro lo schermo, urlando “ho sprecato due ore della mia vita” per quello che lo stesso regista definisce “a mystery without a goddamn solution”, “un mistero senza una cazzo di soluzione”. Weir poi ci ride su, soddisfatto, ma la storiella è importante non solo perché è buffa, ma perché spiega alla perfezione il motivo per cui Picnic a Hanging Rock è un capolavoro.

La cosa che fa più impressione riguardando nel 2021 Picnic a Hanging Rock è pensare che al tempo costò poco più di 400.000$ australiani. Un budget ridicolo per gli standard hollywoodiani, al quale parteciparono anche investitori privati che scucirono la bellezza di 3.000$: nel 1975 Peter Weir era ancora un regista indipendente australiano che stava solo cominciando a lavorare per rivoluzionare la scena del suo Paese. Aveva cominciato con due commedie ai confini con l’horror, Homesdale e Le macchine che distrussero Parigi, e proprio il primo dei due, la storia di un gruppo di persone ospiti di una guest house nella quale possono mettere in scena tutte le loro fantasie più perverse, convinse la produttrice Patricia Lovell ad affidargli il compito di adattare uno dei romanzi australiani più famosi del secolo (e a piazzare sua figlia nel cast, ma questo è un altro discorso).

Picnic a Hanging Rock miss Appleyard

Picnic a Hanging Rock di Joan Lindsay, pubblicato nel 1967, fu un successo clamoroso, la risposta australiana a Shirley Jackson, una favola gotica ambientata nel 1900 ma soprattutto ambientata in Australia, una terra nuova (almeno dal punto di vista letterario) e ancora misteriosa, che riusciva ancora a tenere a distanza la porzione non nativa, o coloniale, della popolazione. Il romanzo giocava con la difficoltà di percepire la differenza tra realtà e immaginazione, si presentava come il racconto di fatti realmente accaduti (cinque ragazze ospiti di un collegio vanno a fare un picnic ai piedi di Hanging Rock e spariscono nel nulla) ma si rifiutava di spiegarli nel dettaglio e preferiva creare un’atmosfera onirica e surreale intorno alla vicenda delle ragazze scomparse durante un picnic. Forse perché era carta e non pellicola, fatto sta che Picnic a Hanging Rock uscì tra l’entusiasmo generale anche perché raccontava un mistero irrisolto (NB questo dettaglio non è del tutto vero, ma ci torniamo in fondo al pezzo).

Quando arrivò il momento di trasformare il romanzo di Joan Lindsay in un film, Peter Weir scelse l’unico approccio possibile: modificò pochissimo la lettera della storia (il suo è uno degli adattamenti più fedeli che si siano mai visti), e puntò invece tutto su un indiscutibile vantaggio, e cioè quello di poter raccontare l’Australia selvaggia e magica nella quale si svolge la vicenda non con le parole, ma per immagini. Picnic a Hanging Rock è un film per il quale non sono sprecati aggettivi un po’ pretenziosi come “pittorico”; l’ispirazione principale è l’impressionismo, non quello europeo ma quello australiano: questo per esempio è il quadro At Hanging Rock di William Ford, dipinto nel 1975:

Impressionismo

e questo è un fotogramma del film:

Dipinto

Il risultato è che Picnic a Hanging Rock è un film che può permettersi di perdere tempo a inquadrare paesaggi o la tipicamente bizzarra fauna australiana, perché ritrarre questo nuovo continente e far vedere al mondo quanto sia diverso è uno degli scopi di Weir. Specifichiamo: quanto sia strano per noi, che arriviamo dall’Europa o dall’America e non abbiamo gli strumenti per capire l’Australia; è emblematico in questo senso il rapporto tra gli unici due personaggi maschili di un certo peso in un film quasi interamente femminile, l’inglese in trasferta Michael e il suo amico australiano Albert. Per il primo l’Australia è una terra magica e incomprensibile, da affrontare però con lo spirito coloniale di chi esplora, conosce, impara e quindi conquista; il secondo affronta la scomparsa delle cinque (poi quattro, poi tre) con il fatalismo del locale, che sa che ci sono pezzi di Australia con i quali è meglio non avere nulla a che fare. Aveva ragione Roger Ebert nel 1998, quando in occasione dell’uscita della director’s cut del film (sette minuti in meno, rarissimo caso di director’s cut più corta della versione cinematografica) scrisse “conosco l’Australia principalmente tramite i film, e me la immagino come una collana di città costiere […] che circondano l’Outback, immenso e antichissimo – dove la logica moderna non si applica e possono succedere cose inspiegabili”.

Picnic a Hanging Rock si aggrappa esattamente a quest’idea: che nel 1900 l’Australia fosse una terra che sfuggiva ancora in massima parte al controllo umano, e nella quale sopravvivevano entità e manifestazioni molto più antiche della nostra specie, e ovviamente imperscrutabili. Il mistero irrisolto del film è implicito, conseguenza diretta della sua ambientazione: per un’ora e tre quarti assistiamo allo spettacolo, affascinante e un po’ patetico, di un gruppo di persone che provano a risolvere un mistero impossibile da risolvere per sua stessa natura. Perché Miranda e le altre hanno abbandonato i rassicuranti e risicati confini della civiltà per addentrarsi là dove può succedere di tutto – e sta poi a chi guarda decidere che cosa sia la natura di questo specifico tutto, se il film sia una metafora su sessualità e repressione, se i due maschi abbiano un ruolo più importante e più tragico di quello che ci vogliono far credere, e così via.

Accento

Picnic a Hanging Rock è un film che funziona perché non spiega nulla, ma avvolge, confonde, suggerisce, e poi si perde a inseguire un rettile o uno scorcio di paesaggio incorniciato da due rocce. Ha la stessa non-logica di un sogno, lo stesso ritmo e lo stesso risultato finale: un pugno di mosche, ma una bellissima sensazione addosso.

E ora torniamo a quello che accennavamo all’inizio: e cioè che, a dirla tutta, una soluzione al mistero della sparizione delle ragazze ci sarebbe. Ve ne parliamo brevemente dopo la foto di Miss McCraw che vi avvisa della presenza di spoiler.

Not McGranitt

La soluzione, dicevamo, sta nel mica tanto misterioso Capitolo 18 del romanzo di Joan Lindsey, che venne tagliato brutalmente al momento dell’uscita e che è stato pubblicato solo nel 1987 sotto forma di libro, The Secret of Hanging Rock, che contiene le 12 pagine mancanti e una serie di materiali collaterali. Nel capitolo si scopre che delle tante interpretazioni possibili sul finale (le ragazze sono cascate in qualche crepaccio e lì sono morte, le ragazze sono morte di fame e sete come suggerisce Albert, le ragazze sono state stuprate e uccise da Albert e Michael…), quella immaginata dall’autrice è la più surreale, che porta il romanzo direttamente in territori folk horror. Miranda, Irma e Marion, insieme a un’irriconoscibile Miss McCraw, vengono attirate da una forza misteriosa verso la cima di Hanging Rock, incontrano una lucertola, la seguono fin dentro una fessura tra due rocce e ne escono trasformate in animali (ci sono anche altri dettagli che suggeriscono che la fessura sia una distorsione spaziotemporale).

È una conclusione in linea con la natura spirituale dell’opera e, se fosse stata integrata nel film, avrebbe dato un significato tutto nuovo anche a tutte le inquadrature da documentario naturalistico che Weir dissemina nel film. Nel 1975, però, il capitolo 18 era ancora chiuso in un cassetto e Weir non ne poteva sapere nulla; e siamo sicuri che anche se avesse saputo della sua esistenza non avrebbe cambiato nulla del suo finale: certe volte, un mistero non risolto è meglio di uno spiegone forzato.

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