Perfect Blue. Cos'ho appena visto?

Uno degli esordi cinematografici più folgoranti di sempre. Perfect Blue torna al cinema ed è ancora oggi uno dei film più complessi possibili

Critico e giornalista cinematografico


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Il primo film di Satoshi Kon torna al cinema dal 22 al 24 aprile, un evento imperdibile per scoprire in Perfect Blue uno dei film più influenti degli anni '90

Nessuno conosce davvero Satoshi Kon quando nel 1997 arriva in sala in Giappone Perfect Blue, il suo primo lungometraggio dopo aver lavorato per qualche anno come sceneggiatore di manga e anime (facendosi notare da Katsuhiro Otomo e collaborando con Mamoru Oshii, due autorità dell’animazione di quegli anni). Ma questo è secondario. La cosa più importante è che nessuno ha mai visto un film come Perfect Blue. Gli anime erano già cosa seria, era già nato lo studio Ghibli e da ben più di un decennio ne uscivano di adulti. Nessuno però aveva mai creato un film animato che, pur facendo riferimento a un genere (in fondo è un giallo), lavorasse così tanto sul racconto della psiche della protagonista, che fosse al tempo stesso completamente radicato in un realismo impressionante per dettaglio e precisione e nel mondo della mente. Nessuno aveva mai fatto un film d’animazione così figlio del cinema dal vero, solo Mamoru Oshii ci si era avvicinato due anni prima con Ghost In The Shell.

Come quasi tutte le opere successive di Kon Perfect Blue è la storia di una persona che esiste in due stati o situazioni o condizioni nello stesso momento. Ha una trama, anche abbastanza lineare, ma la cosa più importante è il racconto di come la mente faccia fatica a conciliare questi due stati, come si possa essere una cosa e il suo contrario e il tentativo di mettere in scena il punto esatto in cui i due stati si confondono. Nella storia una cantante che è parte di un trio, Mima, decide di abbandonare la musica (e quindi una identità che ha creato) e far partire una carriera da attrice, in cui quindi assumerà di volta in volta diverse identità. In quel momento uno squilibrato ossessionato da lei la segue e in un certo senso la perseguita. Più lavora come attrice più Mima fatica a conciliare realtà e finzione, recitazione, set e il suo passato da cantante, mentre tutto intorno alla produzione in cui sta lavorando diverse persone vengono uccise in quelli che sembrano omicidi compiuti proprio da lei.

Gli omicidi, il sangue, la violenza e anche uno stupro finto (recitato nella produzione cui partecipa Mima) sono uno strumento e non il fine, questo non è un film di violenza propriamente detto anche se la contiene, è uno dei molti espedienti attraverso cui si mescolano due lati di una mente, il bianco e il nero. Del resto sono gli anni '90, quelli in cui più di tutti la figura del serial killer va di moda. Mima è presentata in una scena iniziale, bellissima, pura, una j-pop doll un po’ sexy e un po’ innocente, e poi come una ragazza molto normale che vive in un piccolo appartamento caotico. Una persona comune che comincia a scivolare in qualcosa che non è sempre facile comprendere perché non riesce più a conciliare quello che è, cioè la realtà, e quello che finge di essere per lavoro, cioè l’identità da cantante j-pop e poi le identità fittizie dei ruoli che recita. 

Nel 1997 il cinema ne aveva fatti di film sulle doppie o multiple personalità. E come! Ma questi erano quasi sempre o film in cui si scopre alla fine, a sorpresa, che il protagonista o il deuteragonista ha un’altra personalità e quindi quelli che credevamo essere due personaggi sono uno solo (Psyco) oppure sappiamo da subito che dentro a un personaggio sono in lotta due anime completamente diverse (Doppia personalità). Fino a quel punto il cinema aveva trattato il confine tra due identità come due stati netti e separati. Si è una cosa o si è l’altra, solitamente hanno anche due nomi così che il pubblico sa quando il personaggio è X e quando è cambiato ed è Y. Quello che colpisce all’epoca e ancora oggi di Perfect Blue è che vuole fare l’esatto contrario, vuole mettere in scena proprio il confine sfumato tra stati, confondere e non chiarire. Ed è incredibile quante maniere diverse Kon trovi in questo film per rappresentare questo confine (al di là dei più consueti e abusati specchi), alle volte basta un oggetto che passa davanti "all'obiettivo" per svelare che c'è un confine.

Certo al centro di tutto c’è Mima e la sua vecchia identità j-pop, ma se Perfect Blue è così profondamente denso è perché esso stesso scivola tra le due realtà, formalmente proprio. Non è solo il racconto di una persona che ha più di una identità in conflitto ma il racconto di quel conflitto lì attraverso un personaggio. La differenza sta nel fatto che molto spesso il film non è chiaro con noi e ci inganna, ci fa vedere una scena in cui Mima fa qualcosa, solo per poi (con uno stacco di montaggio) svelare che sta recitando sul set. Quella quindi non era lei, ma un personaggio da lei interpretato. Oppure ci fa vedere qualcosa che sembra vero per poi svelare che è un sogno o il frutto della sua immaginazione. In certi punti addirittura non lo spiega nemmeno, così che arriviamo anche noi in quello stato in cui sta Mima, là dove non è più possibile capire cosa sia vero e cosa no.

È la lotta per il risveglio: quando non è chiaro se si stia sognando o se si sia coscienti, se quello che è successo è vero o è immaginato. Quella zona liminale è tutto Perfect Blue. E anche la parte di giallo, cioè gli omicidi e il continuo sospetto su chi possa essere l’assassino, se davvero Mima o l’uomo ossessionato da lei che gestisce un sito internet su di lei e vive in un appartamento tappezzato da sue foto, è parte di quella strategia di continua distrazione. 

È Videodrome in un certo senso, cioè la confusione tra ciò che è ripreso e ciò che è reale, ma è anche De Palma, l’idea che guardare qualcosa o qualcuno attraverso un obiettivo sia una forma di possesso. È insomma qualcosa che appartiene al cinema già da prima del 1997 ma che Perfect Blue porta a un livello decisamente più ossessivo. Come non si era mai visto ma forse è più giusto dire, come non se ne era mai avuta esperienza. Perché Mima ha creato per lavoro altre identità, in particolare quella da cantante j-pop che ha poi deciso di abbandonare ma che sembra non voglia abbandonare lei, e che vive come una forma di sdoppiamento impossibile da gestire. Con una mano alimenta questa e altre identità sul set, con l’altra cerca di essere se stessa. Come nel cinema dal vero ognuna è illuminata diversamente.

È esattamente quello che poi, sedici anni dopo, Darren Aronofski esplorerà in Il cigno nero: una ragazza che per lavoro assume due identità e che non riesce a conciliarle con la sua vita privata, finendo in una spirale di violenza che non capiamo bene da dove venga.

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