Perché Jumanji è ancora perfetto?

Nel 1995 Jumanji sfidò il pubblico a giocare una partita incredibilmente avventurosa, spaventosa e divertente. Perché è ancora perfetto?

Redattore su BadTaste.it e BadTv.it.


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Nel 1995, Jumanji invitò il pubblico ad accettare la sfida di una partita incredibilmente avventurosa, spaventosa e divertente. Nell’anno delle faccende in sospeso dei fantasmi di Casper, il film di Joe Johnston puntava invece sull’emarginazione dei vivi come chiave di volta di una partita all’ultimo respiro. Con un tempismo perfetto, il ’95 è anche l’anno degli introspettivi animali parlanti di Babe - Maialino coraggioso, al quale l’avventura di Alan Parrish contrappone un circo di bestie feroci, letali e più minacciose che mai. Dopo Tesoro Mi Si Sono Ristretti i Ragazzi e la regia delle sequenze in live-action di Pagemaster - L’avventura Meravigliosa, Johnston realizzò il suo progetto più ambizioso: portare sul grande schermo una giostra mirabolante di azione, brivido e family movie nel segno dell’iconico suono dei tamburi. Tratto dal libro illustrato di Chris Van Allsburg (autore anche di Zathura, portato sul grande schermo nel 2005 da Jon Favreau) e con un budget di 65 milioni di dollari, Jumanji fu un grande successo al botteghino e divenne il nuovo fiore all’occhiello della Industrial Light & Magic grazie anche alla sua capacità di infarcire l’avventura di animali sia straordinariamente realistici che sapientemente irreali. Ma il più grande animale da palcoscenico del film è un Robin Williams all’apice della carriera, mattatore d’eccezione e protagonista assoluto e indiscusso. Dal film è stata anche tratta una serie animata in tre stagioni per un totale di 40 episodi, andata in onda tra il 1996 e il 1999 su UPN Kids e Bohbot Kids Network e trasmessa poi in Italia da Rai2 e Rai Gulp: protagonisti sono Judy e Peter che tentano in ogni modo di liberare Alan Parrish, risucchiato dal gioco fin dal 1969 (a differenza di quanto accade nel film, nel quale i due giovani giocatori liberano Alan per puro caso). Accanto a Williams, spicca una delle migliori interpretazioni di Bonnie Hunt, che passa con brio dal ruolo di Alice Newton in Beethoven alla dolce e tormentata Sarah Wittle del film di Johnston. Tra i protagonisti c’è anche una giovanissima Kirsten Dunst, ancora lontana dagli Spider-Man di Sam Raimi e dalla Marie Antoinette di Sofia Coppola. Vent’anni dopo la prima gloriosa partita sul grande schermo, la Sony Pictures ha annunciato un remake con Scott Rosemberg alla sceneggiatura. Ma cosa rende Jumanji, ancora oggi, un film unico e assolutamente riuscito?

Tamburi negli abissi

Da bambini, ci sentiamo spesso intrappolati in un corpo troppo minuto per essere presi sul serio e avere la giusta voce in capitolo. Da piccoli, vedere ciò che gli adulti non vedono è ciò che rende il mondo sia un posto incredibilmente magico che un luogo potenzialmente spaventoso. Non abbiamo solo paura dei mostri, ma temiamo soprattutto di essere gli unici a poterli vedere. Stephen King, nel suo IT, ha colto in pieno la costante inquietudine dell’essere spesso i soli a vedere il male, anche quando la ragione ci dice che non è possibile. Non a caso, la “paura di avere paura” è soprattutto il timore di scoprire che qualcosa di impossibile possa in realtà accadere. “Non darmi della pazza Alan, mai lo devi fare. Perché qui mi hanno tutti dato della pazza quando ho raccontato che sei stato risucchiato da un gioco da tavolo!” esclama la spaurita Sarah dopo ventisei anni di terapia per dimenticare quanto accaduto da bambina. Forse, quella di diventare grandi è davvero una leggenda metropolitana.

La perla delle interpretazioni di Robin Williams e Bonnie Hunt è stata quella di dare vita a due personaggi adulti solo sulla carta, pronti a essere in ogni momento i migliori alleati dei bambini. Alan Parrish e Sarah Wittle sono cresciuti solo esteriormente, ma entrambi sono rimasti irrimediabilmente bloccati nella loro infanzia: il primo perché sospeso in un terrificante limbo spazio-temporale del gioco, la seconda perché segnata per sempre da un trauma indelebile vissuto da piccola. Eppure, una crescita congelata è anche la chiave della loro forza: sono loro i veri ragazzi del film, perché incarnano le figure rassicuranti di due adulti che hanno paura. E se è vero che siamo anche il prodotto dei film che vediamo da bambini, ciò che Jumanji ci ha lasciato è la consapevolezza che la vera paura non è quella di ritrovarsi davanti qualcosa di spaventoso, ma di essere soli nell’affrontarlo. Per questo, nonostante i momenti di brivido, nel complesso Jumanji non è un film spaventoso: la singola creatura può impressionarci sulla base di eventuali fobie, ma il gioco di squadra dei protagonisti e la dinamica familiare che risolve i loro conflitti ci portano a tifare per loro molto più che a temere per la loro incolumità. E ben presto le disastrose conseguenze della partita coinvolgono tutti, evitandoci l'incubo di essere i soli a soffrirne gli effetti. E’ anche per questo che, nonostante l’inferno scatenato dal gioco, resta la voglia di tirare quei dadi e di mettersi alla prova con le persone con le quali abbiamo un’intesa vincente. E duellare con la morte riserva sempre gustosi colpi di scena: prova ne é che dopo l'arrivo di zanzare giganti e scimmie scalmanate gran parte del pubblico non ricordò immediatamente che il lancio di dadi che sguinzagliò in soffitta un diabolico Aslan avrebbe anche riportato a casa un redivivo Alan.

Da piccoli, la scarsa credibilità che abbiamo agli occhi degli adulti rende tutto più difficile e gratuitamente faticoso: è per questo che gli amici diventano l’ancora di salvezza di un periodo che, nonostante l’assenza di responsabilità, non è per niente facile. E la prima chiave di lettura di Jumanji centra in pieno l'intrinseco disagio che pervade i primi anni della nostra vita: chi sono gli individui in grado di sentire i terrificanti tamburi del richiamo del gioco? Perché il giovane Alan Parrish è attratto da un suono affascinante ma allo stesso tempo minaccioso? Se il battito dei tamburi è un'allegoria di quello del cuore del protagonista, per estensione è anche l'eco della tachicardia del pubblico. Soltanto chi è tormentato da una vita disagiata può udire il mistico richiamo del gioco: gli adulti, a cominciare da zia Nora, non lo sentono. "I grandi sono tutti pirati" asseriva Rufio in Hook - Capitan Uncino: ci sono segnali che solo chi ha conservato l'incanto dell'infanzia e la malinconia dell'adolescenza può captare. E la sensibilità di una mente profonda, com’è noto, si accompagna sempre a un’indole perennemente irrequieta. Va da sé che il Jumanji gioca una partita a due livelli: con i personaggi ma anche con lo spettatore. Nelle sue caselle si cela una sfida riservata, non a caso, soltanto a chi non è debole di cuore. E nella vita di ognuno di noi il gioco è, per definizione, il primo elemento che può farci crescere. E’ anche per questo che il paranormale gioco da tavolo è opportunamente misterioso e privo di apparenti spiegazioni sia sulla propria origine che sulla sua destinazione: nemmeno noi sappiamo con certezza da dove veniamo e dove andiamo. Ma se nascita e morte accomunano tutti, a fare la differenza è sempre e solo il tempo che abbiamo tra le due. E il Jumanji, pronto a sconvolgere la nostra esistenza, non è una partita a scacchi con l’enigmista di Saw: non vuole insegnarti a apprezzare ciò che hai, ma a trovare il coraggio di affrontare ciò di cui hai paura. La sua plancia di gioco è un contratto inestinguibile nel quale chiunque firmi è pronto a diventare, per l’appunto, la pedina di un esperimento sociale. Li chiamano, non a caso, giochi di società.

Bangherang Robin

Proprio come la magica libreria di Pagemaster risucchiava Richard Tyler in uno spaventoso mondo nuovo, il demoniaco gioco da tavolo cattura Alan Parrish trasportandolo in una dimensione oscura che lo spettatore non vede ma che può immaginare. Tutti, ripensando al teletrasporto di Alan dopo aver tirato i dadi, hanno fantasticato sul suo lungo soggiorno in un luogo misterioso e pericoloso, probabilmente simile a una terrificante giungla nella quale di notte si odono i versi delle sue mostruose aberrazioni. Parafrasando in parte Roy Batty di Blade Runner, Alan racconta col cuore in gola: “Io ho visto cose che voi avete visto solo negli incubi, cose che neanche immaginate, cose che nemmeno si vedono. Ci sono ombre che ti aspettano in agguato nella notte. Qualcosa grida da qualche parte. E li sentite mangiare”. Ma anziché andare perdute nel tempo come lacrime nella pioggia, le terrificanti esperienze dello sventurato Alan serviranno, una volta per tutte, a completare l’inevitabile e inarrestabile partita iniziata oltre un quarto di secolo prima.

Jumanji game

A interpretare il giovane Parrish è Adam Hann-Byrd, lanciato da Jodie Foster ne Il Mio Piccolo Genio nel 1991. Alan è un giovane vittima dei bulli come Bastian de La Storia Infinita, ed è oppresso da un padre che non fa che ricordargli che “un avversario prima o poi va affrontato”. Non è un caso che una delle sue paure più profonde assuma le fattezze di un cacciatore che ha le stesse sembianze del padre e che non fa che citare la frase incriminata. Alan sembra conoscerlo (“Van Pelt!” esclama leggendo la maledizione in arrivo dopo aver tirato i dadi), il che solletica nuovamente l’immaginazione del pubblico, portandolo a immaginare le vicissitudini avute tra i due nel misterioso luogo dove Alan è stato a lungo esiliato. Nel mettere in scena il suo ritorno a casa da adulto, l’avventura calza a pennello alle doti istrioniche di Robin Williams. Jumanji è un calderone agitato e non mescolato di tensione drammatica e divertimento, e Williams ha interpretato con successo sia ruoli brillanti (Mrs. Doubtfire) che drammatici (L’attimo fuggente). La sua morte è stata anche la scomparsa di uno degli interpreti più poliedrici, trasversali e versatili della sua generazione. Come attore, Johnston gli ha dato l’ennesima occasione di saltare in vari registri e di spingersi oltre i recinti dello 'stay in character': Williams è buffo quando cerca di comunicare con le scimmie, toccante nell’apprendere la sorte di suo padre, eroico nel difendere Sarah dal gigantesco caimano e costantemente intriso di un sottile e istintivo infantilismo derivato dall’eterno Peter Pan dell'Hook spielberghiano. Bangherang, Robin.

Il suo vero grande contraltare, dall’infanzia all’età adulta, è proprio il gioco. Il visore sul quale i giocatori leggono le terribili sfide della loro partita è un incrocio tra un arcano display e un’imprevedibile tavola ouijia. Johnston rende la partita un’esperienza a metà tra una seduta spiritica e una gigantesca corsa per la sopravvivenza: il gioco ha decisamente il coltello dalla parte del manico ed è anche un portale pronto a sottrarti a questo mondo, affidando il tuo ritorno al calcolo delle probabilità scandito dal lancio di due dadi. “Nella giungla dovrai stare finché un cinque o un otto non compare” è una sentenza che ricorda sia la prigione del Monopoly che alcuni improbabili sistemi giudiziari, nei quali si entra o si esce di galera sulla base di variabili aleatorie. A meno, ovviamente, di non finire presto in coda alla catena alimentare.

Animali fantastici (e dove trovarli)

Joe Johnston ha avuto due carriere: la prima lo ha visto vincitore di un Oscar per gli effetti speciali de I Predatori dell’Arca Perduta. Nella seconda, l’influenza di Spielberg non è stata solo sulla carta: è proprio il regista di Jurassic Park a affidargli, cinque anni dopo Jumanji, la regia di Jurassic Park III, un passo falso che per Johnson segna una battuta d’arresto e l'inizio di un percorso travagliato fino alla svolta con i Marvel Studios e con Captain America: Il primo vendicatore. Di fatto, fino al nuovo millennio Johnston ha portato avanti un’idea personale, ambiziosa e a per nulla scontata del grande cinema di entertainment: conciliare azione e brivido con i meccanismi più classici del film per famiglie. Un’impresa difficile, nella quale il rischio è innanzitutto quello di confondere lo spettatore su cosa stia effettivamente guardando. Ma Jumanji è la perfetta e equilibrata resa di un mix di generi che fa proprio il filone avventuroso degli anni '80 rivisitandolo con buoni sentimenti e la giusta dose di brivido. Per Johnston è il culmine di un percorso iniziato con Tesoro Mi Si Sono Ritretti i Ragazzi e proseguito con Pagemaster. Ancora oggi, è probabilmente il punto più alto della sua carriera.

Jumanji lion
Se in Pagemaster era il protagonista a viaggiare per mondi oscuri e luoghi impervi, Jumanji rovescia le carte e porta gli abitanti di un mondo selvaggio nella nostra realtà. “Non è reale Peter, è un’allucinazione” azzarda Judy al fratello, prima di fuggire dal letale attacco del famelico leone. E al cinema, gran parte del giovane pubblico ha provato, forse per la prima volta, una paradossale mescolanza di paura e curiosità. C’è un che di rassicurante nel farsi spaventare dalle incredibili maledizioni scatenate dal gioco perché Johnston ha sapientemente infarcito il film di elementi “caldi” e di situazioni opportunamente buffe che lo allontanano con decisione dalla tensione e dal pathos di un Jurassic Park. E’ esattamente questa la ragione per la quale Jumanji canta vittoria mentre Jurassic Park III è è un sequel inefficace: la dinamica del family movie funziona in Jumanji perché è un unicum senza predecessori, mentre il terzo capitolo di Jurassic Park non riesce a essere un'avventura che attinge dalla più squisita sorgente del thriller. La differenza tra i due generi di atmosfere è anche nella gestione dell'umorismo. In Jumanji, le battute alleggeriscono il film mentre nel primo Jurassic Park arrivano spesso al culmine di una scena ricca di tensione: “Tutta questa fatica e ancora sto in macchina” esclamava Tim Murphy dopo la terrificante scena con il T-Rex; “Tutt’a un tratto mi sento come a casa mia” sentenziava Alan vedendo la residenza Parrish invasa dalle piante carnivore. Non è un caso che Jurassic World sia invece un ibrido proprio come i suoi dinosauri geneticamente modificati: pur omaggiando il leggendario film di Spielberg, il film di Colin Trevorrow riprende molti elementi del family movie alla Jumanji e vuole fare sia da sequel al primo Jurassic Park (ignorando i successivi due) che da potenziale riavvio di una cosmogonia nuova. Trevorrow ha realizzato, a tutti gli effetti, un film d’avventura che ha una parentela molto più stretta con Jumanji che non con lo stesso Jurassic Park: i dinosauri di Trevorrow sono “amplificati” (con l’espediente dell’ingegneria genetica) proprio come lo sono gli animali di Johnston. E in entrambi i casi, sentimenti e umorismo scaldano la vicenda senza stonare né confondere il pubblico, proprio perché l’ambizione non è quella del thriller ma della pura avventura. E come in Jumanji, anche nel film di Trevorrow due fratelli problematici stringono un rapporto indelebile con due adulti che altro non sono che due grossi bambini cresciuti: lui ha esperienza di un mondo selvaggio, mentre lei si ritrova catapultata in una situazione limite. Entrambi sono family movie, con picchi di spavento e di puro spettacolo, nei quali adulti e ragazzi formano un legame familiare senza avere necessariamente rapporti di parentela: i genitori di Judy e Peter sono morti mentre quelli di Zach e Gray stanno divorziando (ed entrambi i fratelli si ritrovano con una zia che inizialmente sembra non capirli). E l’Owen Grady di Chris Pratt era l’unico a poter imbrigliare la ferocia istintiva dei raptor del parco tanto quanto Alan Parrish era il solo a saper gestire l’anarchica natura selvaggia delle belve scatenate dal gioco.

Ma nel ’95, nella corsa all’iperrealismo lanciata da Jurassic Park, la genialità di Jumanji è proprio nel dare agli animali qualcosa di meravigliosamente irreale: nell’espressione del leone c’è un aspetto demoniaco che l’animale reale non possiede; nelle scimmie c’è una follia ossessivo-compulsiva che le rende una piaga incontrollabile; nella mandria impazzita c’è una carica distruttiva mutuata da uno tsunami in corridoio (la ripresa è identica alla vernice animata di Pagemaster che sbatte contro uno scaffale e continua la sua corsa in libreria); le piante carnivore sono come una piovra gigante che invade l’intera magione con i suoi tentacoli. Non è magia, ma realtà aumentata: per tutta la durata della partita i giocatori e il pubblico avvertono minacce sempre più fisiche pronte a mettere alla prova la capacità di fare squadra. Se è vero che la vita è una grande avventura, anche la partita ha lo stesso carico di responsabilità: “Avventurosi attenzione” legge sul tabellone la giovane Judy dopo aver iniziato a giocare, “Non cominciate se non intendete finire. Ogni sconvolgente conseguenza del gioco scomparirà solo quando un giocatore, raggiunto Jumanji, gridato forte il nome avrà”. E’ un match che è come un matrimonio: è pieno di sfide e, una volta iniziato, devi essere convinto di ciò che stai facendo. E chi non ha mai iniziato un gioco da tavolo senza leggere tutte le noiose istruzioni?

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