Perché Il Gigante di Ferro è stato un flop?

Il Gigante di Ferro è stato uno dei film di animazione più apprezzati di fine secolo. Perché è stato anche un colossale flop al botteghino?

Redattore su BadTaste.it e BadTv.it.


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Uscito nel 1999, Il Gigante di Ferro è stato l’esordio alla regia di Brad Bird. Prima dei successi in Pixar con Gli Incredibili e Ratatouille, il suo primo lungometraggio animato fu un trionfo di critica ma un grosso flop al botteghino. Basato sul romanzo The Iron Man di Ted Hughes del 1968 e sviluppato sia in animazione tradizionale che in CGI, il film di Bird incassò appena 31 milioni di dollari a fronte di un budget di quasi 80. Riscoperto lentamente dal pubblico tramite l’home video, in oltre quindici anni è divenuto un cult, guadagnando un folto e appassionato seguito di fan e facendo brevemente ritorno nelle sale americane nel 2015, riproposto in una nuova versione rimasterizzata. Prodotto dalla Warner Bros. Feature Animation, vede nel cast vocale Vin Diesel come voce del gigante e Jennifer Aniston nei panni della madre del piccolo Hogarth. Il progetto, iniziato nel 1994, passò sotto la lente di molti, compreso Don Bluth, ma finì nelle mani della Warner che lo affidò a Bird con l'assicurazione di un ampio spazio creativo. La major consentì al regista di inserire personaggi nuovi (Dean e Kent), di trasporre l’ambientazione nell’America degli anni ’50 e di eliminare ogni riferimento musicale. E’ proprio Bird a adottare fin da subito quell’approccio “What if” che lo porterà all’attenzione di John Lasseter e di Pixar, dove anni dopo farà fortuna. “Cosa accadrebbe se un'arma avesse un’anima?” si chiede il regista. La risposta è declinata in uno dei lungometraggi di animazione più riusciti di fine secolo. Oggi, Il Gigante di Ferro è considerato un esempio classico di prodotto eccellente letteralmente ucciso dal mancato supporto dell'industria di riferimento, incapace di promuoverlo a dovere. Vediamo come e perché il film fu contemporaneamente un trionfo creativo e un tonfo commerciale.

Il Gigante di Ferro Hogarth

Bad Robot o Grande Jaeger Gentile?

Gran parte della nostra infanzia poggia su un paradosso interessante e allo stesso tempo frustrante: quando siamo piccoli, tutto il resto sembra gigantesco. Le gioie sono occasioni di celebrare tutto come una vittoria mentre i problemi divengono catastrofi pronte a ribaltare la nostra visione della vita. Eppure, in quei pochi anni c'è un enorme capitale immaginifico che ci porta a vedere tutto con lo sguardo incantato di chi non ha nulla da perdere. E un colosso come il gigante di ferro, contemporaneamente misterioso, tecnologico e incredibilmente utile, esprime al meglio il potenziale sottostimato di un’infanzia visionaria, capace di vedere bellezza dove l’adulto vede potenziali rischi.

Quando i giganteschi autobot di Transformers piombano sulla terra, una bimba scambia Ironhide per la fata dei dentini, mentre un gruppo di adolescenti in delirio prova a raggiungere il punto di impatto di uno dei robot. A produrre il film di Bay è Lorenzo di Bonaventura, che all’epoca de Il Gigante di Ferro era proprio uno dei dirigenti più in vista della Warner. Dall’arrivo di enormi droidi sulla terra alla costruzione degli Jaeger di Pacific Rim, non c’è ipotesi fantascientifica che non sia stata raccontata sul grande schermo: qualora qualcosa di incredibile accadesse davvero, troverebbe un'infanzia pronta sia a stupirsi che a dire di aver già visto tutto al cinema. Nel 1957, Hogarth si comporta più o meno allo stesso modo, trovando una forte analogia tra ciò che accade nella realtà e ciò che ha letto nei fumetti. Superman e gran parte dei comics della seconda metà del Novecento sono a tutti gli effetti i poemi epici del nostro tempo, pronti a veicolare i tratti culturali di un’umanità che ha sempre più risorse a disposizione (a partire dalla bomba atomica, costantemente evocata nel film di Bird) e che deve fare i conti con le conseguenze delle proprie scelte. Lo ricorderà anche Albus Silente a un giovane mago, che ha dalla sua le enormi possibilità offerte dai propri poteri: la magia non è che un'appendice se non è guidata da scelte consapevoli. Nel nostro mondo la magia si chiama tecnologia, ma ci richiama esattamente alla stessa etica della responsabilità. E il mondo de Il Gigante di Ferro è anche il racconto di un’epoca di transizione, nella quale lo scontro ideologico tra superpotenze si riflette nell’immaginario popolare. Ecco perché, quando piomba sulla terra, il colosso di metallo non viene capito: la sua presenza non può essere un semplice incidente ma deve necessariamente essere inquadrata all’interno di una logica di contrapposizione.

Non chiamatelo E.T.

Dal momento della sua uscita al cinema, parte della critica americana, entusiasta del film, notò più di un parallelismo con E.T. l’extraterrestre. Tuttavia, se Elliott era chiamato a nascondere un piccolo alieno, Hogarth ha invece un problema molto più grande, dovendo celare al mondo un amico dalle dimensioni di un piccolo Jaeger. Come spesso accade, la straordinaria amicizia tra diversi deve essere tenuta nascosta sia per non spaventare gli adulti che per proteggersi dalle loro deliranti reazioni. Marahute, la gigantesca aquila di Bianca e Bernie nella Terra dei Canguri, era oggetto della caccia del bracconiere McLeach, mentre il piccolo Sdentato di Dragon Trainer è inizialmente ritenuto un pericoloso predatore, apparentemente impossibile da addomesticare. Persino Sam Witwicky di Transformers dovrà nascondere i giganteschi autobot dai propri genitori. E nel film di Bird, le enormi dimensioni del gigante sono anche una ghiotta occasione per lo script di farsi divertente: quando i vari pezzi dell’enorme robot si staccano e se ne vanno a spasso per casa Hughes, garantiscono una gustosa presenza del gigante anche quando l’enorme droide non può apparire per intero. Molto de Il Gigante di Ferro è derivato da un curioso connubio tra la fantascienza anni '50 (scenari, design e ambientazione) e il cinema fantastico degli anni ’80 (script, ritmo e topoi narrativi). Hogarth sente dei rumori di notte e esce con una torcia proprio come Elliott usciva alla ricerca del piccolo alieno rimasto sulla terra; addentrandosi nella foresta, scopre un visitatore venuto da lontano; tra i due inizia un reciproco studio delle rispettive abitudini; entrambi si assicurano che l’altro non abbia intenzioni ostili per poi cercare una linea di comunicazione con la quale interagire. E ancora una volta, manca del tutto la figura paterna, che fa del gigante un riempitivo dell’enorme spazio vuoto lasciato dalla perdita di un genitore. A scuola, mentre guarda i filmati propagandistici di Duck & Cover su come proteggersi da un olocausto nucleare, Hogarth disegna il gigante proprio come Elliott disegnava E.T durante la lezione di scienze. I due avranno persino il loro magico climax, nel quale il gigante eleva il ragazzo al cielo portandolo in alto nella sua grande mano metallica, proprio come Elliott e l’extraterrestre volavano insieme sulla bici di notte. Nonostante le analogie, Brad Bird non ama l’accostamento del suo film a quello di Spielberg: “E.T. non prendeva a calci l’esercito!” rispose il regista a Roger Ebert, che aveva notato le similitudini con il film dell’82. Effettivamente, ciò che rende il Gigante di Ferro un unicum, che spezza una lancia a favore di Bird, è proprio la sua particolare ambientazione. E’ assolutamente indispensabile che il film si svolga nel ’57, mentre le avventure di Elliott e di E.T. si svolgono in un tempo sospeso nel quale ciò che conta è la loro amicizia, non il contesto socio-politico. L'universo problematico de Il Gigante di Ferro non sta sullo sfondo, ma in primo piano come parte integrante della storia. Bird ha ragione, il suo gigante non è una rivisitazione steampunk di E.T., ma è il simulacro di un tempo storico nel quale ciò che per un bambino è meraviglioso diventa fonte di una psicosi collettiva figlia esclusivamente della Guerra Fredda.

Se il film non è un clone del classico di Spielberg, è però indubbio che l’unico modo che ha per eliminare la sensazione di già visto è proprio nell’animazione. E Bird è uno dei pionieri dell’emancipazione del cartone animato, che da genere diventa tecnica. E’ lui, ancora in sordina, a gridare al pubblico (e all’industria) che il cartone non è più sinonimo di film per bambini ma è un mezzo espressivo per raccontare storie a tutto tondo. Il suo film si rivolge a tutti, soprattutto agli adulti, mostrando ai ragazzi cresciuti atmosfere e pietre miliari sia della loro infanzia che di un mondo che non c’è più. Dare personalità al gigantesco robot è poi ancora più arduo che rendere accattivante un piccolo alieno, anche perché il gigante ha un volto inevitabilmente più statico rispetto a una creatura vivente. Ma Bird è saggio, e usa l'animazione con criterio e oculatezza: il gigante è realizzato in CGI e si muove in un universo di fondali e personaggi in animazione tradizionale. L'effetto straniamento è servito, e funziona: chi non è di questo mondo non può essere animato allo stesso modo dei terrestri. Negli anni successivi, fino al culmine di Wall-E di Andrew Stanton, l’animazione è riuscita a rendere espressivo ciò che è apparentemente freddo e ordinario. Tuttavia, nel 1999, mostrare agli spettatori un enorme droide dal design apparentemente retrò è ancora una sfida decisamente ambiziosa. Per vincerla con eleganza, il modo migliore di agganciare il pubblico è mostrare la fisicità e le potenzialità del corpo meccanico del grosso uomo di latta. Il nostro gigante può infatti rimescolare i propri pezzi come una specie di Transformer e divenire, all’occorrenza, una sorta di enorme coltellino svizzero in grado di risolvere i problemi più disparati. E’ solo con gradualità che ci vengono mostrate le sue varie e incredibili possibilità e le mirabolanti facoltà nascoste nel suo grosso corpo di metallo. L’attenzione dello spettatore è sempre al massimo proprio perché Bird introduce fin da subito l’eventualità che il mastodontico droide sfoderi all’improvviso qualcosa di nascosto e di inaspettato. Un po' come Guillermo del Toro ha usato i colpi di scena in Pacific Rim, facendo sfoderare ai Kaiju abilità inaspettate. Niente male, dopotutto, avere accanto un gigante dalle mille risorse. E in effetti, è anche questo uno dei motivi per cui l’amicizia tra piccoli e grandi continua a funzionare: quando un grande amico è anche un amico grande, per chi è piccolo si apre un ventaglio di possibilità che gli consente finalmente di esprimere il proprio potenziale: “Ho il mio robot personale! Da questo momento sono il bambino più fortunato d’America!” esclama Hogarth. Che la grandezza sia nelle dimensioni (Il GGG, Marahute) o nelle possibilità (E.T., Sdentato), un alleato oltre la sfera dell’ordinario rappresenta l’occasione di essere finalmente presi sul serio.

L’eterno riscatto della provincia americana

Da I Goonies a Super 8, le più funamboliche avventure dei giovani eroi non avvengono nelle grandi metropoli, dove luci e traffico renderebbero impossibile ogni genere di mistero, ma in provincia, dove le giornate trascorrono nella sonnolenta routine degli abitanti e dove di notte la gente va semplicemente a dormire. Il cuore pulsante degli Stati Uniti non è nelle grandi megalopoli, ma in un gigantesco sottobosco di piccoli centri, dove l’immaginazione può spiccare il volo proprio a compensazione della noia. “Le cose grosse accadono nei grandi centri, e prima stilerò il mio rapporto prima ci potrò tornare!” esclama l’ispettore governativo Kent Masley. Tuttavia, la forza della creatività americana è anche nella propria capacità di declinare l’impossibile nelle storie di chi, nell’immaginario comune, sembra destinato a una vita ordinaria e noiosa. A Rockwell come ad Astoria o a Castle Rock, è proprio grazie ai fumetti che la generazione di Hogarth (e di Bird), cresciuta lontana dai grandi agglomerati urbani, ha sviluppato uno sguardo curioso sul mondo, pronto a far uscire un ragazzo in piena notte pur di scoprire cosa siano delle luci al di là di una collina. Le favole della buonanotte che Hogarth racconterà al suo gigante saranno proprio le avventure di Superman: “Lui era come te, è piombato sulla terra senza conoscere nessuno”. Dall’uomo d’acciaio all’uomo di latta, integrarsi sul nostro pianeta non è mai una passeggiata. L’eterno riscatto della provincia a stelle e strisce è anche nel contrasto con il volto di turno dell’establishment, sgherro di un governo centrale che non ha idea di come si viva lontano dai centri di potere. Kent Masley è di fatto la rappresentazione di ciò che la pancia dell’America non è in grado di digerire: il governo che si intrufola nelle tue faccende. La gente di frontiera è abituata a uno stato leggero, figlio della cultura del pioniere e del self-made man che vede l’individuo sia in grado di fare fortuna da solo che di farsi giustizia da sé. E i damerini in doppio petto di Washington sono inevitabilmente destinati a creare più guai che soluzioni.

L'arte c'è, l'industria no

Come già ribadito, gran parte del fallimento de Il Gigante di Ferro si deve alla scarsa e alla sbagliata promozione che ne accompagnò l’uscita nelle sale. La Warner si leccava le ferite dopo il flop de La Spada Magica - Alla Ricerca di Camelot, costato oltre 40 milioni e con un incasso di appena 22. Tuttavia, lo studio rimase impressionato dai test screening, dai quali il film di Bird risultava riuscito oltre ogni ottimistica previsione. Lo stesso Bird ha raccontato che non venne impiegato il tempo sufficiente a creare una campagna di marketing efficace: l’unico teaser poster che fu rilasciato divenne la locandina definitiva del film e non vennero stipulate le partnership necessarie a venderne il merchandise. “Alla Warner non si resero conto di cosa avevano tra le mani” racconta il regista. L’uscita del film venne rimandata di parecchi mesi con l’idea di rimediare e di allestire all’ultimo momento una promozione adeguata. Bird era furioso, e accusò lo studio di aver avuto oltre due anni di tempo per prepararne un degno rilascio. Contemporaneamente, in casa Warner era in corso un ricambio tra i vertici dirigenziali e il grosso delle risorse finanziarie destinate alla promozione dei titoli in uscita finì su blockbuster estivi come Wild Wild West. Analisti e addetti ai lavori considerano Il Gigante di Ferro un caso che ha letteralmente fatto scuola, a dimostrazione di quanto la promozione sia indispensabile a garantire il successo di un prodotto di intrattenimento. Il film non fu atteso come un evento, non fu reclamizzato a dovere, non venne proposto come un avvincente e eroico racconto di coraggio e di amicizia, non sfruttò il proprio potenziale crossmediale e, senza una degna apertura, non poté neanche beneficiare del passaparola. Chi venne raggiunto dal poco materiale promozionale ebbe quasi l’idea di un film di nicchia, lontano dalle ambizioni del suo budget e dalle potenzialità di imporsi come un titolo competitivo al livello dei prodotti disneyani. Gran parte del pubblico, che lo ha scoperto in home video, ha manifestato in primo luogo stupore. Con molti anni di anticipo, Il Gigante di Ferro è stato un concentrato di tutto ciò che oggi è una miniera d’oro della scena mainstream. Dopo i successi in Pixar, Bird può consolarsi con due premi Oscar mentre gli studios hanno imparato una lezione in più.

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