Perché dovreste guardare Jane the Virgin anche se odiate le telenovela
Jane the Virgin è una storia su come si raccontano le storie: ecco perché dovreste vederla anche se non amate le telenovela
Con esattamente 100 episodi andati in onda dal 2014 al 2019 su The CW, e svariate nomination e premi di ogni tipo, dai Golden Globe ai Teen Choice Awards, Jane the Virgin è la dimostrazione che non è necessario creare un'enciclopedia online per mettere in atto la decostruzione dei meccanismi narrativi che tengono in piedi l'intero edificio dell'intrattenimento occidentale – basta una telenovela.
Per usare una metafora cara a Shrek, Jane the Virgin è come una cipolla, metafora in realtà inesatta perché presuppone una qualche forma di gerarchia tra ciò che è esteriore/visibili e ciò che è interiore/invisibili, ma che nonostante questo si presta al discorso; Jane the Virgin è fatta a strati.
Dicevamo però degli altri strati, ed è qui che Jane the Virgin trascende e diventa un'opera che potrebbe (dovrebbe, in realtà) conquistare anche chi si nutre solo di pane e Steven Seagal, o a chi non concepisce film che non siano horror, o a chi non riesce a seguire una storia se non è punteggiata da esplosioni a intervalli regolari. Ciascuno di questi strati si meriterebbe un approfondimento a parte – il fatto che sia una serie le cui protagoniste sono tre donne latine, per esempio, o la capacità del team di scrittura di pescare anche dalla politica e dall'attualità per usare la serie come piattaforma per lanciare messaggi, o la considerazione che i maschi della serie PARLANO delle loro emozioni invece di SOFFRIRE IN SILENZIO E STOICAMENTE –, ma quello più trasversale, quello che rende Jane the Virgin (anche) una riflessione ficcante sulle fondamenta stesse delle storie che ci raccontiamo, è la presenza costante del voice-over, di un narratore che funge da tramite tra il racconto e il pubblico, e che costantemente commenta, osserva, suggerisce, azzarda, aiuta a interpretare, apre occhi, stuzzica e più in generale accompagna la visione aggiungendo un ulteriore strato (appunto) di significato alle vicende.
È una scelta senza dubbio figlia della passione per "le cose meta-" che ha caratterizzato gli ultimi dieci/quindici anni nei quali un numero imprecisato di autori e autrici in tutti i campi dell'intrattenimento hanno preso d'assalto la quarta parete e l'hanno abbattuta a colpi di mazza ferrata, poi hanno preso le macerie, le hanno tritate e ne hanno sparso la polvere al vento.
(Ci si potrebbe leggere una qualche forma di parabola negativa, tipo: prima abbiamo inventato le storie e le abbiamo raccontate, poi abbiamo esaurito le storie nuove e ci siamo messi a discutere di quelle vecchie, infine abbiamo esaurito le riflessioni e direttamente ricominciato a dirci storie vecchie con il vestito nuovo).
C'è però una differenza fondamentale tra quello che fa Jane the Virgin e quello che fa, per dire il caso più recente e clamoroso, Deadpool, e cioè: Jane the Virgin non rompe la quarta parete, ne allarga semplicemente i confini così da includere gli spettatori stessi, che sono parte integrante (per quanto muta) della narrazione nella misura in cui i racconti del narratore sono rivolti direttamente a loro e lui in quanto personaggio esiste in una dimensione differente rispetto a quella delle storie che sta raccontando, che è quella, appunto, degli spettatori; non è "Kate Winslet da vecchia che racconta Titanic" né "Kevin Spacey che parla direttamente alla telecamera", ma uno scambio di opinioni. Il narratore di Jane the Virgin è parte del pubblico, è lì di fianco a voi sul divano durante la visione, ed è così, istituzionalizzando l'occhiolino, che la serie evita di cadere nella stucchevolezza.
La voce narrante (e onnisciente) è anche, e soprattutto, il primo motore della riflessione sui generi e più in generale sulla narrazione che fa da sfondo a tutte le cinque stagioni di Jane the Virgin, riflessione che narrativamente si regge sul fatto che Jane, la protagonista, sogna di fare la scrittrice, e che nel corso di cento episodi ha portato la serie a vagare in territori apparentemente impensabili. Certo, è prima di tutto una telenovela e non ha mai smesso di esserlo, ma nell'arco di cinque stagioni è stata anche un thriller, un fantasy, un period piece in costume, un musical, a seconda di quello che richiedeva la storia e in ossequio a uno dei modelli narrativi principali sia di Jane sia di Jennie Snyder Urman, cioè il realismo magico di stampo sudamericano, da Allende a Borges a Marquez. È un'operazione non dissimile da quella fatta da Rachel Bloom con la musica in Crazy Ex Girlfriend, che Jane the Virgin applica però al racconto, e soprattutto dove le canzoni di Rebecca Bunch sfruttavano i generi per portare avanti la storia e li trattavano di fatto come orpelli estetici, qui è la storia stessa che informa il genere di riferimento: se entra in scena il personaggio della "criminale internazionale pericolosissima" e minaccia di morte un personaggio, è naturale che il tono del racconto cambi e abbandoni il romanticismo per spingere l'acceleratore sulla tensione, e che quella che cinque minuti prima era messo in scena come una telenovela diventi un poliziesco con tutti i crismi.
Le ultime quattro parole del paragrafo precedente sono la chiave di tutto il discorso: è vero che Jane the Virgin si diverte a puntare il dito contro le formule magiche e quelle soluzioni che si applicano pigramente a una storia per portarla avanti e tirare fino in fondo (pensate solo al trope del "personaggio con amnesia"). Ma è anche vero che lo fa sempre con il massimo rispetto, e che riconosce che una casa può anche essere fatta di mattoncini uguali a tutti gli altri mattoncini di tutte le altre case della città, ma una casa non è solo i suoi mattoncini. E quindi ogni volta che c'è uno scarto tonale, un brusco cambio di atmosfera, un ingresso a gamba tesa in un genere che apparentemente non c'entra nulla, Jane the Virgin fa di tutto per esaltarlo, per celebrarlo, per spiegare come mai quel mattoncino funzioni o come mai non si riesca a fare a meno di quest'altro.
E così quella che inizia come una pioggerella di spunti si trasforma, ora della quinta stagione, in un diluvio di riflessioni, considerazioni e rivelazioni, che farebbe venir voglia a chiunque di scrivere qualcosa, qualsiasi cosa, e la cui morale rassicurante e sempre molto meta- è: usate pure i cliché, purché li usiate come arma e non come stampella. O anche, riformulato: non c'è differenza tra "un bacio al chiaro di luna", "lo straniero senza nome che se ne va a cavallo verso il tramonto" e "la prima coppia che fa sesso viene uccisa dal serial killer", e non bisogna vergognarsi a usarli, anche tutti e tre contemporaneamente se ha senso, perché non sono banalità ma un substrato comune, un linguaggio condiviso che impariamo fin da piccoli e che permea secoli e secoli di racconti, storie, fiabe, favole e leggende.
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