Perché Bojack Horseman è stata una gigantesca seduta di terapia di gruppo
Conclusa la sua corsa in sei stagioni su Netflix, possiamo dire che Bojack Horseman è stata una gigantesca seduta di terapia di gruppo
Bojack Horseman: la recensione della prima parte della sesta stagione
Bojack Horseman: la recensione della seconda parte della sesta stagione
BoJack Horseman era un'assurdità, o quantomeno nasceva come tale: era uno show comico, certo insolitamente acuto quando si trattava di dedicare qualche secondo all'introspezione, ma anche, e prima di tutto, una fenomenale raccolta di gag e tormentoni, di caricature e delirio assortito. Una considerazione che spiega le recensioni mediocri che ricevette la prima stagione quando andò in onda per la prima volta: al tempo Netflix distribuì alla critica solo i primi sei episodi, che in effetti rivisti oggi, alla luce di tutto quello che è successo dopo, spiccano per la loro spensieratezza e quasi superficialità. È con la chiusura del settimo episodio che la situazione cambia radicalmente, e BoJack comincia la sua trasformazione in quella gigantesca seduta di terapia di gruppo che è poi il motivo per cui verrà ricordata negli anni; prestigiose testate dai quattro angoli del mondo corsero a correggere le loro prime valutazioni, lodando il coraggio di uno show che sembrava solo l'ennesima satira animata e si era invece rivelato come una sorta di erede di Mad Men con uno stallone vero e non metaforico come protagonista.
Alzi la mano chi non ci è cascato. Chi, all'altezza di "quella volta che BoJack rubò la D di Hollywood", era già convinto che le cose sarebbero cambiate, che Bob-Waksberg e Hanawalt ci avrebbero raccontato non solo la spirale ma la luce in fondo al tunnel. Certo, gli indizi ci sono sempre stati, così come l'evidente ambizione di usare il mezzo per sperimentare, tentare cose diverse, persino, vivaddio, elevarsi, trattare BoJack con la serietà e il rigore con cui un Matthew Weiner o un Aaron Sorkin affrontano qualsiasi cosa facciano compresa la lista della spesa. Ma BoJack non ha mai rinunciato alla leggerezza o, nella peggiore delle ipotesi, all'assurdo – a tutti quegli elementi che la tenevano ancorata ai modelli di riferimento, e che erano anche una boccata d'ossigeno per un pubblico non abituato a trovarsi con il cuore in gola e un attacco d'ansia di fronte a un cartone animato che non si intitolasse Una tomba per le lucciole. Per dirla più semplice: nonostante tutto, per anni BoJack Horseman ha sempre e comunque fatto ridere con della gran comicità, e ha sempre usato le risate come paravento contro la tempesta emotiva; è una serie che ci ha convinti per stagioni intere di essere di fronte a una storia in ultima analisi divertente, dove alcool e droga sono il veicolo per pazze avventure e non benzina nel motore della decadenza fisica e morale del suo protagonista.
Quand'è che è cambiato tutto? Ciascuno avrà la sua personale risposta: c'è chi ci ha visto lungo già all'altezza dell'ottavo episodio della prima stagione, quello dell'ultimo litigio tra BoJack e Herb, e chi ha avuto i primi sospetti quando, sette episodi dopo, la serie è tornata sulla faccenda con la prima di tante puntate ambientata a un funerale. Chi giura che la svolta sia arrivata con la morte di Sarah Lynn, e questa persona avrebbe probabilmente ragione. Chi fa notare che ancora nella quarta stagione c'era tempo per un episodo interamente dedicato a Todd, probabilmente il personaggio di BoJack che più assomiglia a un meme, e chi è convinto che si debba arrivare al finale della quinta, e all'ingresso in rehab di BoJack, per poter parlare di un vero cambiamento di tono.
La realtà, e qui torniamo alla domanda iniziale, è che chi ha risposto "sì" ci aveva visto lungo. Ora che è calato il sipario, BoJack Horseman si è rivelata come uno spaventoso lavoro di scrittura e di sperimentazione sul linguaggio dell'animazione, un Grande Romanzo Americano che fin dalle prime scene aveva in testa una sola domanda, e cioè: è possibile diventare persone migliori? Non vale solo per BoJack, la serie è (ancora: si è rivelata) un viaggio collettivo nelle ansie di almeno tre generazioni.
Per chi ha 50 anni è la storia di un uomo chiamato cavallo famoso, pigro e tendente alla tossicodipendenza che deve venire a patti con il suo decadimento fisico e morale e deve in ultima analisi crescere e prendersi tutte quelle responsabilità che per anni ha potuto ignorare protetto dal suo privilegio e dalla sua fama.
Per chi ne ha 40 è la storia di quel momento della tua vita in cui ti guardi allo specchio, tiri le somme, accetti che il passato sia passato e rimetti definitivamente in ordine le tue priorità, accorgendoti così che hai speso gli ultimi 15 anni a inseguire obiettivi e ideali che non ti fanno felice quanto dovrebbero.
Per chi ne ha 30 è una storia sulla sindrome dell'impostore, sull'ansia sociale, sul sentirsi inadeguati, ma anche sull'incapacità di chiedere aiuto come conseguenza dell'incapacità di riconoscere di avere bisogno di aiuto. Per chi è Todd è la storia di Todd. E così via. E tutto, tutto quanto, è presentato e raccontato nei primi venticinque minuti della serie: andate a riguardarvi il pilot e capirete.
È chiaro che come ogni Grande Romanzo, Americano o meno, anche BoJack si sia perso per strada qui e là; che abbia preso direzioni inaspettate e subito abbandonate perché meno interessanti di quanto sembrassero, che si sia preso il suo tempo per giungere al punto perché si stava crogiolando in se stesso e nel suo talento – in questo senso la quarta e soprattutto la quinta stagione sono un ottovolante di momenti sublimi e di solenni perdite di tempo che poco aggiungono al quadro generale. Ma è anche vero che queste presunte perdite di tempo sono sempre andate di pari passo con una ricerca formale sempre più raffinata, sia in fase di scrittura (e di incastro di soluzioni narrative) sia stilistica: è difficile pensare di togliere qualcosa a BoJack Horseman e in questo modo migliorarlo, perché anche i pezzi più superflui rimangono comunque piacevolissimi da guardare.
Per cui, in definitiva: no, non ce l'aspettavamo ma sì, ci speravamo, perché anche nei suoi momenti più bui, respingenti e autodistruttivi BoJack Horseman non ha mai voluto rinunciare alla speranza, e non la speranza di un Don Draper o di un Tony Soprano, che le cose possano smettere di incasinarsi e si possa tornare a un piacevole status quo, ma la speranza che la proverbiale luce in fondo al tunnel sia effettivamente una cosa che succede, che ammettere di fare schifo e chiedere aiuto a chi ci sta vicino sia non solo possibile ma consigliabile; che si possa cambiare, migliorare, crescere. Un messaggio che arriva da uno show che di fatto parla di depressione, il che può sembrare fin troppo ottimista se non addirittura irrispettoso; non lo è, ovviamente, perché BoJack Horseman riconosce anche che non esistono guarigioni miracolose, che le cicatrici non si cancellano, che non è possibile "diventare una persona nuova", che quello che conta è la consapevolezza e la capacità di mettere da parte l'orgoglio e chiedere aiuto. E anche che non tutte le guarigioni sono anche riconciliazioni, che a volte bisogna lasciarsi indietro dei pezzi per ripartire davvero; è forse il dettaglio più doloroso del finale di serie: BoJack che saluta una a una le persone che gli sono state vicine, che un tempo erano sue amiche e che, per arrivare in fondo al loro personale percorso, devono salutarlo, lasciarselo alle spalle – good friends we've had good friends we've lost along the way, come cantava quello. Magari abbiamo dei dubbi sul "good", non sul fatto che BoJack, Diane, Princess Carolyne, Mr. Peanutbutter, Todd e tutto il resto dell'assurdo universo di Hollywoo siano stati nostri amici; ci mancheranno, ma era giusto salutarsi.