Pee Wee's Big Adventure: 35 anni fa Tim Burton iniziava una carriera su commissione

35 anni dopo lo possiamo dire, quell'inizio di carriera ha segnato tutta la vita da regista di Tim Burton

Critico e giornalista cinematografico


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Tra tutti i grandissimi autori che hanno lavorato e lavorano per gli studios forse Tim Burton è quello che è stato ed è tuttora più in difficoltà. Per nulla incline a fare l’indipendente ma anche tremendamente in rotta con i dettami e i desideri dei colossi, si trova da sempre in una terra di mezzo faticosissima che massacra i suoi film e lo costringe a terribili compromessi. Tutto partiva 35 anni fa quando in Italia usciva Pee Wee’s Big Adventure, il suo primo lungometraggio dopo un paio di corti di buon successo (all’interno dell’industria) cioè Frankenweenie e Vincent. Il primo era la storia di un bambino che per non perdere il proprio cane morto lo riporta in vita (di fatto un remake/parodia di Frankenstein), il secondo un film animato su un ragazzo triste che vive in una magione gotica, tutto in rima. Erano puro Burton, erano industria (un remake di un film noto con un bambino e il suo amato cane!) e aspirazioni personali (animazione fuori dai canoni, tratti unici, poesie lette da Vincent Price e palette in bianco e nero). Questo dualismo è Tim Burton.

Da noi Pee Wee Herman sostanzialmente è sconosciuto ma c’è stato un momento negli anni ‘80 in cui il suo show televisivo a cavallo tra adulti e bambini (si poneva come qualcosa per bambini ma questo adulto scemo faceva riferimenti ed aveva un umorismo che titillava e straniva gli adulti, divertendoli) faceva ascolti, piaceva ed era il programma da guardare del momento. Reubens arrivò anche a presentare una notte degli Oscar del 1988 nei panni di Pee Wee Herman. Per dire del successo.
In quegli stessi anni Tim Burton cercava di fare il salto. Aveva fatto i corti che doveva fare con la Disney e questi stavano piacendo, il suo agente era al lavoro per fargli avere un lungo e vagliava sceneggiature. Quando arrivò la possibilità di lavorare con Reubens vide in quel personaggio qualcosa di a lui vicino, un freak che a molti può suonare respingente ma in cui si nasconde una certa dolcezza. O almeno ce lo volle vedere. Qualcuno che non è come gli altri, ma dalla cui parte schierarsi.
Certo il film era quello che era.

Pee Wee Big Adventure

La sceneggiatura non l’aveva nemmeno letta ma sapeva molto bene che non era il caso di fare lo schizzinoso e già avere un personaggio simile, uno così noto (leggi: un incasso agevolato), verso il quale sentiva un’affinità, sembrava più che sufficiente. La sceneggiatura sarebbe arrivata poi e sarebbe stata, nelle parole dello stesso Reubensil manuale della scrittura per il cinema”. Erano 90 pagine che sono diventate 90 minuti di film, in cui c’è il MacGuffin richiesto (a Pee Wee Herman viene rubata la bicicletta e attraversa gli Stati Uniti per ritrovarla) che entra al minuto 30, dopo cioè esattamente un terzo di film e viene risolto al minuto 60, in tempo per il terzo atto conclusivo. Tutto era stato fatto secondo le regole per cercare di tradurre in box office un successo e un personaggio della televisione. Mancava solo di girarlo, cioè mancava solo Tim Burton.
E come sempre sarebbe successo di lì in poi questo cineasta in difficoltà con le politiche degli studios ma bravo a fare quello che loro gli chiedono, consegna in tempo, non sfora il budget, dà un bel ritmo e una bella patina al film e porta a casa l’incasso.

Sembra una storia di successo, anche perché poi questo successo e quello di Beetlejuice portarono la Warner a prendere la decisione di affidare a Burton il loro film su Batman. Invece è una storia abbastanza triste vista oggi, 35 anni dopo l’uscita. Perché è la storia di come Pee Wee’s Big Adventure abbia segnato l’intera carriera di Burton.

Poteva essere un Wes Anderson o un Woody Allen, qualcuno cioè con un tratto così particolare e un pubblico così schierato da poter lavorare ai propri ritmi, con i propri cast e un successo che asseconda l’aderenza ai propri stilemi. Poteva cioè essere indipendente e non sottostare a regole e privilegi dei grandi studios. Poteva insomma essere qualcuno che agisce al di fuori degli schemi hollywoodiani, non intrappolato dal meccanismo dei film su commissione dentro i quali cercare di far passare la propria poetica. E invece no.

Pee Wee Big Adventure

Il modello Pee Wee’s Big Adventure è diventata la sua croce. All’inizio non sembrava ma a quel film ne è seguito un altro sempre su commissione, ma ancora più perfetto per lui, cioè Beetlejuice, e poi per l’appunto un altro ancora, sempre più grande, Batman, che non era perfetto per lui ma che lui rese perfetto per sé. E solo a quel punto, finalmente qualcosa di suo, di cui avesse curato la sceneggiatura, ideato i personaggi e di cui controllasse completamente il look. Quello che tutti noi continuiamo (erroneamente) a considerare un autore americano, in virtù di una poetica e di un’estetica chiare e personali, è arrivato al suo primo film realmente personale dopo 3 lavori per gli studios, e a quel punto è tornato più e più volte agli studios, ai grandi film su commissione, ai compromessi per elemosinare fondi per qualcosa di proprio.

Non solo ha adattato Frankenweenie in un lungo, ha diretto per la Disney i live action di Dumbo e Alice nel paese delle meraviglie e adesso vorrebbe girare il sequel di Beetlejuice, ma è tutta la sua carriera che è stata soggetta alla commissione, proprio come in quel primo film con Reubens. Un inferno di decisioni e compromessi, di delusioni continue e film che non sembrano suoi anche se superficialmente replicano le sue ossessioni, i suoi alberi spogli, manieri gotici e personaggi interpretati da Johnny Depp. Tutto per averne uno autentico e soddisfacente ogni dieci anni.

Per questo non è una storia di vero successo quella di Pee Wee’s Big Adventure, ma quella di come è stata forgiata una gabbia dorata. In quel momento più che nascere il Burton autore (che è nato con Edward Mani di Forbice) nasceva il “filtro Burton”, cioè quella patina che Tim Burton applica ai film degli studios per renderli un po’ più suoi senza davvero cambiare nulla, un velo di tristezza dietro le lucine che non basta mai e lascia solo l’amaro in bocca.

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