Over the Top fa fede al suo titolo

Over the Top è il miglior film di sempre su un padre single camionista campione di braccio di ferro, ma forse non è una grande conquista

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Questo speciale fa parte della rubrica Tutto quello che so sulla vita l’ho imparato da Sylvester Stallone.

Dentro Over the Top ci sono due lupi.

Uno è un lupo intellettuale che vorrebbe fare un sofisticato dramma familiare di perdita e ricongiungimento, nel quale un padre che ha abbandonato il figlio appena nato gli si riavvicina nonostante le rimostranze del suocero che lo crede un poco di buono.

L’altro è un lupo tamarro convinto che il modo migliore per raccontare questo dramma sia convincendoci che far guidare un camion a un bambino di 12 anni in autostrada sia una buona idea e un successo educativo. Entrambi i lupi hanno la faccia di Sylvester Stallone, come già dimostrato dalla sua filmografia fino a lì (e anche oltre, visto che Rocky V è di tre anni dopo). Questi lupi non sembrano contentissimi di essere in Over the Top, e spesso bisticciano, purtroppo a detrimento del film.

Menahem Golan e Sylvester Stallone avevano già lavorato insieme in Cobra, dove però l’israeliano aveva solo funzione di produttore. In Over the Top i due lavoreranno insieme per la prima e ultima volta – un peccato e anche un fatto sorprendente considerata la carriera di Golan con la sua Cannon Group e il suo ruolo centrale nella scena action anni Ottanta. Over the Top però di action ha poco, ed è uno dei rari casi di film di quel periodo nel quale Stallone venne ingaggiato perché portasse in scena tutte le facce di Rocky, non solo quella atletica, e anche un po’ il senso di smarrimento, solitudine e mancanza di radici del primissimo Rambo.

Non a caso Stallone lo scrisse insieme a Stirling Silliphant, un Autore con tutte le maiuscole responsabile tra le altre cose della sceneggiatura di La calda notte dell’ispettore Tibbs e di The Killer Elite di Peckinpah, nonché grande amico di Bruce Lee. I due, dicono gli aneddoti dell’epoca, andarono perfettamente d’accordo e la produzione di Over the Top fu una delle più tranquille della carriera di Stallone, nonostante infranga in teoria una delle regole d’oro di Hollywood: mai lavorare con i bambini.

Over the Top è un film su un padre e un figlio prima ancora che un film d’azione. Lincoln Hawk è un camionista che ha fatto un figlio con una persona non particolarmente caratterizzata ma indubbiamente ricca, e che per motivi altrettanto non specificati ma facilmente intuibili guardando il film ha abbandonato la sua famiglia per rimettersi sulla strada. 12 anni dopo l’ex moglie sta morendo, e decide che il figlio si merita di conoscere il padre almeno una volta nella vita: li mette quindi in contatto contro il parere del nonno, e in quel momento comincia una parabola che porterà due persone molto diverse che condividono però svariati cromosomi a scoprire di volersi bene e di voler vivere insieme.

Il problema di questo approccio è duplice. Da un lato, Stallone esagera e prende fin troppo sul serio il ruolo del padre sconfitto e pentito che si trasforma solo quando comincia un match di braccio di ferro. Il risultato è che passa un’ora e mezza di film a sussurrare in maniera incomprensibile e raramente riesce a infondere una scintilla vitale nel suo personaggio. Il distacco e la freddezza sono una cosa, la piattezza un’altra, e in Over the Top prevale spesso la seconda. L’altro problema è che il film vuole comunque essere “un film con Stallone”, e quindi quella che sulla carta è una storia di riavvicinamento familiare viene messa in scena prendendo il modello Karate Kid e spingendolo all’eccesso, e spesso al ridicolo.

È esemplare la già citata scena dove Sly decide che è una buona idea affidare il volante del camion a suo figlio solo per dimostrargli qualcosa. O quella in cui per convincere il suocero di essere la persona giusta per crescere il piccolo Mike decide di sfondargli il cancello di casa e tutte le statue del giardino con il suo camion. C’è un tale distacco tra quello di cui il film vorrebbe convincerci e il modo in cui prova a farlo che viene il dubbio che sia fatto apposta; ma in realtà questa distonia tra il lato familiare e quello action non viene mai riconosciuta, figuriamoci problematizzata, e il risultato è che si passa buona parte del secondo atto a pensare che forse il cattivissimo nonno interpretato da Robert Loggia tutti i torti non ce li abbia.

C’è più in generale un problema di over-the-topness in Over the Top, e l’uso delle musiche è simbolico. Lo stesso Stallone, che solo due anni prima aveva girato quel gigantesco videoclip che è Rocky IV, ha ammesso che Over the Top esagera con le hit da classifica sparate una dopo l’altra senza soluzione di continuità. Anche la scelta di usare il braccio di ferro come sport di turno non è azzeccatissima, perché gli manca la gravitas e la tradizione della boxe ma anche la nobiltà europea del calcio; è uno sport prima di tutto spettacolare e un po’ finto, e non a caso la finale si tiene a Las Vegas, e tutto il contesto stride con il fatto che il nostro protagonista sta cercando di vincere questa gara per costruirsi una nuova vita con il figlio. Senza contare che il braccio di ferro regala sì decine di faccette diverse, ma non è uno sport particolarmente dinamico, e in questo modo tutte le scene action si riducono a una lunga serie di campi e controcampi su gente con la faccia tiratissima.

Per chiudere lasciateci spendere due parole sul povero David Mendenhall, al tempo quindicenne costretto a interpretare un dodicenne e vittima del solito bullismo dei Razzie che lo candidarono addirittura a due premi (peggior attore non protagonista e peggior nuova star). Il suo ruolo è abbastanza ingrato ma lui dimostra comunque di avere una discreta alchimia con Stallone e pur non lasciando alcun segno non fa sostanzialmente nulla di male. Prendersela con lui per il flop del film (16 milioni incassati contro i 25 di budget) è ingeneroso: il problema di Over the Top è molto più profondo del suo protagonista, è un problema di identità, e di armonia tra storia e tono del racconto. È un capitolo dimenticabile della saga stalloniana: Sly si sciacquò la bocca un anno dopo con Rambo III, salvo poi tornare a floppare – ma di questo parleremo la prossima settimana.

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