Outriders e Narita Boy hanno lenito la cronica mancanza di tripla A | Speciale
Se le killer application tardano, titoli come Outriders e Narita Boy potrebbero farci riscoprire il valore dei giochi meno ambiziosi
Lorenzo Kobe Fazio gioca dai tempi del Master System. Scrive per importanti testate del settore da oltre una decina d'anni ed è co-autore del saggio "Teatro e Videogiochi. Dall'avatara agli avatar".
Fisiologico rodaggio per i nuovi hardware e pandemia tuttora in atto hanno ovviamente rallentato sviluppo e realizzazione di titoli di un certo peso, lasciando a produzioni meno ambiziose il compito di colmare questo vuoto.
Del resto, pensateci bene, soprattutto per una certa frangia di fan, che non sono certo stati aiutati da una critica che tende a polarizzare opinioni e analisi, soprattutto negli ultimi anni hanno perso il giusto metro di giudizio per quanto riguarda un certo tipo di videogiochi. Effettivamente, in un’industria non sempre sana come quella videoludica, dove tutto è hype, dove ogni capitolo di una serie è per forza “più grande e più grosso”, dove spesso conta più la quantità che la qualità, non è poi così difficile perdere il senso della misura.
Il sette e mezzo, voto che abbiamo affibbiato proprio ad Outriders e Narita Boy, in pratica, oggi come oggi, nel sentire comune valgono come mezze bocciature, quasi si trattasse di un attestato di stima per videogiochi che pur hanno qualcosa di buono, ma che in realtà non hanno la caratura del capolavoro, del gioco da consigliare all’appassionato o a chi cerca proprio quel tipo di esperienza lì.
Nulla di più lontano dalla realtà, per chi le nostre recensioni le ha lette per intero, sebbene, è vero, in entrambi i casi non siamo certo di fronte a produzioni prive di difetti e storture. Come capita quasi ad ogni gioco esistente.
Eppure, questa stasi, questa bolla in cui siamo costretti, dentro e fuori, videoludicamente parlando e non, paradossalmente, e anche un po’ tragicamente beninteso, ci sta forse restituendo parte della sensibilità, di spirito e non solo, persa in questi anni di full immersion nella frenetica, e a tratti folle, quotidianità della società capitalista.
Restare chiusi in casa ci ha fatto comprendere quanto sia meglio concedersi una passeggiata, piuttosto che passare l’ennesimo sabato pomeriggio in un centro commerciale. Concedersi esclusivamente dei video-apertivi, ci ha palesato quanto sia sciocco rimandare costantemente l’appuntamento con i propri amici per pigrizia o mancanza di tempo. Non ritrovarsi grossi titoli cavalcati, in primis, dai reparti marketing dei rispettivi publisher, ci ha permesso non solo di riscoprire produzioni che iniziavano a prendere polvere nel nostro backlog, ma anche di apprezzare maggiormente il valore di giochi come Outriders e Narita Boy: imperfetti, ma con qualcosa da dare, a chi sa tendere l’orecchio.
La produzione Square-Enix, per esempio, al di là delle recenti magagne al netcode, non si configura certo come un titolo rivoluzionario e il debito artistico nei confronti di Destiny potrebbe allontanare chi sente puzza di clone. Eppure la sua trasversalità, il suo gunplay caciarone, hanno saputo rendere enormemente più piacevoli questi primi, piovosi, pomeriggi di primavera.
Narita Boy, dal canto suo, pur non incanto con un level design degno di questo nome, cela, sotto una splendida superficie fatta di pixel art e musica synth, la toccante biografia di un uomo sconvolto da un trauma che ha influenzato l’intero corso della sua vita.
In entrambi i casi, insomma, si tratta di produzioni che probabilmente verranno dimenticate in fretta nei prossimi anni, che tuttavia hanno comunque conquistato i cuori di tanti fan che, complice la penuria di produzioni dai nomi più altisonanti, non solo hanno deciso di dargli una chance, ma che, soprattutto, equipaggiati di una sensibilità sconosciuta in altri momenti storici, vuoi per il bombardamento mediatico, vuoi per l’imbarazzo della scelta di nuove uscite, sono stati in grado di carpirle più affondo, andando al di là dei difetti e limiti.
Non è da escludere che una volta tornati alla “normalità”, anche la nostra sensibilità torni quella di sempre. Sarebbe bello, tuttavia, poter dire di aver imparato almeno qualcosa in questa lunga e difficile pandemia. Sia che si tratti di aver compreso l’inutilità dell’ennesimo pomeriggio in un centro commerciale. Sia che si tratti di dare più spazio a produzioni meno ambiziose sulla carta, e meno pubblicizzate dai rispettivi reparti marketing, ma comunque in grado, a modo loro, di offrire un’esperienza unica e valida. Andando ben al di là degli eventuali sette e mezzo che, ci teniamo a ribadirlo un’ultima volta, non equivalgono affatto ad una mezza bocciatura, come per Outriders e Narita Boy.