L'Oscar a Parasite non cambierà nulla a Hollywood perché tutto sta già cambiando
Sono più di 10 anni che gli Oscar riconoscono con i premi maggiori cineasti messicani, film con protagonisti indiani o a produzione francese. Questo è l'ultimo passo
Nello specifico il cinema coreano negli anni ‘00 era stato una colonna delle prime forme di download illegale (l’unico modo all’epoca di approvvigionarsi) e negli anni ‘10 un punto fermo dei festival, gli unici luoghi capaci di mostrare e apprezzare tutti questi germi. Parasite era a Cannes, lo ha vinto Cannes. Giusto così, non va dimenticato chi è oggi che ancora scopre talenti, film e tendenze. I festival.
Ma se è vero che Parasite è eccezionale e unico, non replicabile di certo, è anche vero che un film così eccezionale qualche anno fa difficilmente avrebbe fatto questa strada.
Negli ultimi 10 anni circa, a partire dal 2009, gli Oscar hanno premiato un film britannico che parlava di India, con personaggi indiani, un film francese muto (che parlava di Hollywood) e diversi film diretti da registi messicani, fino adesso a un film coreano in lingua coreana, il primo ad aver vinto il premio per il miglior film pur avendo i sottotitoli (barriera gigantesca per il pubblico americano).
Hollywood è sempre stata un’industria mondiale, ma se fin dagli anni ‘20 attirava talenti stranieri per mangiarli, sputando chi non riusciva ad adattarsi e facendo propri tutti quelli che invece riuscivano a mettere il loro genio al servizio degli studios e delle storie americane, adesso sembra stia per la prima volta guardando anche fuori dai propri confini riconoscendo storie messicane, storie indiane e storie coreane.
In questo senso l’Oscar a Parasite non cambierà niente. Niente di niente. Ma è invece la dimostrazione che qualcosa stava cambiando già da prima e che la prospettiva di un cinema mondiale è sempre più reale. Lenta ma reale. In Italia il mercato interno non basta più alle produzioni e chiunque abbia ambizioni superiori al milione di euro si sta attrezzando per produrre “per l’estero”, in altri paesi europei la situazione o non è diversa o è già così da qualche anno. Hollywood ha da tempo destinato una parte della propria produzione al resto del pianeta (Cina in testa), abbassando il tasso di specificità locale, aumentando i personaggi e riducendo al minimo comun denominatore ogni interazione e dinamica così che vadano bene per chiunque.
Non sfugge ovviamente a nessuno che questa apertura alla produzione straniera abbia in realtà nella televisione il suo vero alfiere. È grazie alla maniera in cui le serie circolano, grazie al modo in cui abituano il pubblico ai sottotitoli, a storie e personaggi anche molto lontani da noi, alla maniera in cui hanno spostato l’asse dei buoni contenuti, dimostrando con i fatti che possono venire da dovunque, che il cinema anche coreano gode di maggiore credibilità e che l’Academy non trova fuori dal mondo votare Bong e non Mendes o Tarantino.
Questo insomma non è un infantile sogno mondialista ma una realtà che sta diventando sempre più vera sotto i nostri occhi. Alimentata dalla serialità, benedetta dalle piattaforme di streaming che sono felici di non avere nazionalità. Non è un cambio veloce, ma lentissimo, non è un cambio radicale ma si affianca a tutte le dinamiche che conosciamo.
Tuttavia sta succedendo.
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