Oscar 2023, miglior film: pro e contro dei candidati
Tutti i candidati a miglior film negli Oscar 2023 analizzati e raccontati ragionando come se fossimo dei giurati dell'Academy
Un viaggio negli Oscar 2023 attraverso i candidati a miglior film. Quello che ci raccontano della stagione appena trascorsa, come si posizionano rispetto ai concorrenti e come sono effettivamente. Di settimana in settimana analizzeremo i dieci titoli che concorreranno al premio più importante della stagione cinematografica.
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Ci sarà modo anche di parlare della forma, con un approccio sempre molto concreto interpretando sia che cosa ne pensano coloro che andranno a votare che l'opinione che ne potrebbe avere il pubblico, spesso spiazzato oppure particolarmente affezionato agli outsider. Non facciamo ipotesi sugli Oscar 2023, li studiamo insieme nei pro, nei contro, e nel lascito che ci aspetteremo.
Il viaggio inizia ora ma ci accompagnerà fino agli Academy Award. Qui sotto aggiorneremo la lista con le nostre analisi dei film man mano che le pubblicheremo.
Se volete consultare l'elenco con tutti i candidati agli Oscar 2023 cliccate qui.
Top Gun: Maverick
Top Gun: Maverick è Tom Cruise. Totalmente Tom Cruise. Insieme a lui hanno reso il film il fenomeno dell'anno l'abile regia di Joseph Kosinski e la lungimiranza produttiva del "veterano" Jerry Bruckheimer. La candidatura agli Oscar è un riconoscimento meritatissimo ai tre.
È molto facile parlare bene di Maverick. Il film è trascinante, si guarda con una facilità d'altri tempi. Le riprese aeree sono tra le più dinamiche e immersive mai viste al cinema. Per contenere un titanismo visivo del genere servono schermi enormi. Quello che si prova a vederlo al cinema è un qualcosa che coinvolge fisicamente tutti i sensi. Sì, sembra di sentire anche l'odore delle cabine di pilotaggio. Amatissimo dal pubblico e dalla critica Top Gun: Maverick è stato una festa per il cinema. Comparsa toccante di Val Kilmer, veramente ben equilibrata.
È però questa sua vocazione nazional popolare a rappresentare il suo limite maggiore. La storia è ridotta all'osso, e non è un problema di per sé, ma i buchi sono riempiti da delle assurdità. Fa molto ridere quanto la missione venga ripetuta fino allo stremo a dei soldati che si sono addestrati per mesi, anche a poche ore dall'inizio! La posta in gioco sarebbe poi un gravissimo disastro geopolitico, è veramente difficile sentirlo. I cattivi cattivissimi non hanno volto, per poter dare a cuor leggero la scena agli americani buoni che li ammazzano senza rimorsi. Un cuore classico, a volte troppo classico. La nomination a miglior film agli Oscar 2023 è da interpretarsi come un segno di ammirazione e un invito a farne più di film così... che piacciono e fanno un sacco di soldi.
Leggi tutto lo speciale - Top Gun: Maverick è un outsider agli Oscar 2023 ed è un premio a due carriere
Niente di nuovo sul fronte occidentale
Tratto dal romanzo di Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale scava all'interno delle trincee della prima guerra mondiale per osservare quello che succedeva. Trova uomini con l'animo lasciato a pezzi nel fango in un'esperienza d'inferno in terra che non si sarebbero mai aspettati. Violentissimo, crudo, sensoriale, il film di Edward Berger è un candidato a miglior film agli Oscar 2023 molto convenzionale, eppure non meno interessante.
Il suo principale problema è di voler essere tantissime cose, e non riuscire ad essere nuovo veramente in nessuna di queste. Guarda molto ai classici nella sua messa in scena rigorsosa. Cerca l'immersione, forse un po' troppo, tanto che il realismo viene stemperato da una sensazione videoludica sicuramente non desiderata. Occorre una riflessione seria sull'uso della violenza esplicita e dello splatter nei film di guerra, perché in casi come questo, in cui è sparsa ovunque con il chiaro intento di turbare, ottiene invece l'effetto opposto. Un po' assuefatti, la si cerca come un divertimento in un film con qualche decina di minuti di troppo e molto poco da dire di veramente impattante.
Gli aspetti positivi però non mancano, a partire da una tecnica quasi perfetta. Gli effetti visivi sono integrati con le scenografie in modo invisibile (ottimo quindi). Lo spazio riesce bene ad essere protagonista, mentre le performance estreme del cast, ricoperto da sangue, fango e panni sgualciti, viene amplificata dal trucco. È un film da Oscar? Certamente! È un film che riesce a graffiare quanto vorrebbe? No.
Leggi tutto lo speciale - Niente di nuovo sul fronte occidentale non è niente di nuovo per gli Oscar
Avatar: la via dell’acqua
James Cameron l'ha rifatto. Un successo strepitoso al botteghino, un passo in avanti nella tecnica degli effetti speciali, e il ritorno della sindrome di Pandora. Più che della depressione che ha colto qualche spettatore dopo aver ritrovato l'impatto con la realtà si dovrebbe parlare dell'illusione che lascia il film. Cioè che tutti i blockbuster possano essere visivamente mozzafiato come Avatar - La via dell'acqua.
La sua forza indiscutibile sta proprio nell'essere almeno cinque anni avanti (facciamo anche dieci?) rispetto allo spettacolo sensoriale che Hollywood propone mediamente con i blockbuster. La produzione è stata un mondo a parte: solo Cameron può permettersela così ambiziosa e vorace di tempo. Però c'è la sensazione che in qualche modo Avatar abbia un po' salvato l'esperienza di sala. O, per lo meno, ha contribuito a dare una spinta decisiva alla ripartenza dei cinema e dell'amore dei cinefili.
Per goderselo appieno bisogna però ignorare una storia anche questa volta banalotta e ricalcata sul primo capitolo che invece era molto più curato nelle tematiche metacinematografiche. C'era una riflessione sulla visione, sull'immersione e l'identificazione nell'altro che qui si è persa. Resta un film di guerra dall'esito scontato che non lascia con il fiato sospeso per i futuri capitoli. La scelta più vintage di un film che viene dal futuro.
Leggi tutto lo speciale - Avatar – La via dell’acqua non è l’alternativa ai blockbuster, è l’eccezione che conferma la regola
Gli spiriti dell’isola
I pro de Gli spiriti dell'isola sono esattamente quelli che potrebbero infastidire parte del pubblico. Un film senza risposte e con tantissime domande. Una scrittura sopraffina che conduce gradualmente dalla comicità dell'assurdo a un dramma grottesco asfissiante. Attori in stato di grazia: Brendan Gleeson e Colin Farrell certamente, non si dimentichi però Barry Keoghan. Il paesaggio diventa un contrappunto comico, gli spazi e le icone servono alle gag. A conti fatti però si ride ben poco. È un Martin McDonagh, what else?
I contro de Gli spiriti dell'isola. Fatto sulla forma dei film che possono battersi bene agli Oscar, è un po' troppo consapevole di quello che è e mostra senza timore la sua costruzione narrativa. È sempre un po' più in alto dello spettatore e lo guarda verso il basso senza facilitargli la vita. Se non attacca i primi 10 minuti si rischia così di restare fuori da un treno che non dà più ulteriori agganci. Vive di domande, ed è forse per questo che sembra che negli ultimi minuti manchi qualcosa di più, un guizzo costruito a lungo che non giunge. Quando si allontana dai due protagonisti poi brilla un po' di meno, pur restando uno dei titoli più forti in gara e indubbiamente uno dei favoriti per premi importanti. Se succedesse, non sarebbe comunque immeritato.
Leggi tutto lo speciale - Gli spiriti dell’isola è un candidato agli Oscar che si racconta come divertente, ma è il più angosciante
Elvis
Elvis è un film su un supereroe. Il suo potere: la seduzione trascinante, la musica che cambia la società. Baz Luhrmann si diverte tantissimo e ottiene, con la storia del re del rock, uno dei suoi film migliori.
Austin Butler è la forza del film, insieme a un montaggio (ovviamente) travolgente e un comparto sonoro pazzesco. Il giovane attore è un concentrato di carisma. Magnetico, va perfettamente a ritmo con un film che è una giostra emotiva. Non era semplice! Lunghissimo, Elvis è un'esperienza sfiancante ed entusiasmante come un concerto. Una grande alternativa al blockbuster tradizionale: il film musicale che porta al massimo gli impianti dei cinema.
La debolezza del progetto sta, paradossalmente, nella forza del suo protagonista che assorbe tutto e lo ributta in scena nel bene e nel male. Quando la carriera va a gonfie vele, il film è pazzesco. Quando il cantante si sente incatenato, imprigionato dal colonnello Tom Parker, anche il film rallenta e diventa soffocante con meno idee di messa in scena. Qualche minuto in meno avrebbe sicuramente giovato. Perché Tom Hanks, che ha l'importante ruolo di narratore, oltre che di villain interno al racconto, è più scollegato dalle intenzioni di Luhrmann e non sempre lavora in favore del film. Si ferma così ad un passo dalla vera grandezza.
Leggi tutto lo speciale - Elvis è come una canzone: ha ritmo, fa sognare e si può riascoltare più volte
Everything Everywhere All At Once
Il grande favorito agli Oscar 2023. Everything Everywhere All at Once rappresenta il bisogno del cinema di ritornare ad essere pura idea. Ovvero uno spazio che sia creatività più di quanto sia misura e significato.
Al di là del tono frizzante e veramente folle, al di là della rappresentazione della comunità asiatica, della quotidianità in una storia di multiversi, il film dei Daniels è ciò che meglio rappresenta lo stato del cinema oggi. Una ricerca dell'originalità disperata in un mondo che sembra aver già raccontato tutto. Eppure, si dice nel film, ognuno ha in sé qualcosa che rende unici e preziosissimi. Estendere questo messaggio di orgoglio al cinema e ai creativi è come prendere una boccata di ossigeno dopo una lunga apnea. È chiaro che tutto questo piace agli addetti ai lavori. Il fatto che abbia conquistato anche il pubblico è però il suo più grande merito.
Ha una storia semplice quanto stratificata e impossibile da riassumere. I problemi di Everything Everywhere All at Once stanno proprio nella sua fame di dire, di mostrare, di accumulare strati di lettura e teorie. Il gioco si regge fino a una mezz'ora finale (ma anche quaranta minuti) dove pur cambiando ad ogni scena tutto sembra ripetersi. Qualche problema di ritmo che non gli ha impedito di diventare il fenomeno della stagione. Per lo meno in USA.
Leggi tutto lo speciale - Everything Everywhere All at Once e l’importanza dell’originalità
The Fabelmans
Spielberg e la più grande storia non ancora raccontata: quella della sua famiglia. The Fabelmans è un film veramente per tutti. Sicuramente non ha limiti di età, di gusti e di cultura. Poi colpisce al cuore chiunque: chi conosce Spielberg, chi invece è un neofita, chi sa che è tratto dalla sua esperienza, chi non lo sa. Vederlo riempie di gioia, sia che si ritenga il cinema una semplice meraviglia tecnologica, sia che lo si ami come la materia di cui sono fatti i sogni.
In altri tempi un film come questo sarebbe favoritissimo. In questa annata invece la sua natura classica potrebbe togliergli molte probabilità di vincere qualche statuetta importante. Dai premi assegnati fino ad ora sembra infatti che l'attenzione delle varie giurie sia rivolta maggiormente alle opere postmoderne, che incarnano lo spirito dei nostri tempi, il bisogno del cinema di rinnovare la sua struttura narrativa, di provocare, di andare all'estremo delle sue possibilità. Spielberg si tiene invece in equilibrio al centro.
Lo fa trovando in questa perfezione di atmosfere, emozioni, colori, il suo maggiore pregio. The Fabelmans non butta via nemmeno una scena, riesce ad essere quasi un film di animazione Pixar per come riesce ad alternare rigorosamente una risata per ogni lacrima. Fu una mossa da maestro quella di Spielberg insieme allo sceneggiatore Tony Kushner nel trovare la giusta distanza. L'hanno fatto creando personaggi fittizi (non meno autentici) da una vita che è spesso entrata nei suoi film senza annunciarsi. Per lui solo il cinema racconta la verità. Ha pertanto avuto bisogno di una lente, ieri come oggi, per mostrarsi al mondo in questo modo: trasformando il particolare in universale, rendendo quindi la (sua) realtà un grandissimo film.
Leggi tutto lo speciale - The Fabelmans è il candidato agli Oscar 2023 che piace a tutti, e non succedeva da tempo
Tár
Lydia Tár è la più importante direttrice d'orchestra, una delle artiste più influenti di sempre. Peccato che non esista. Todd Field riesce, con le prime scene del suo film, a dare l'impressione di star vedendo un biopic su una persona che realmente ha calcato i palcoscenici. Questa idea è essenziale per tutto quello che viene dopo.
Perché Tár vince quando riesce a toccare la più calda attualità del dibattito artistico. Il suo cuore sono temi come la presenza femminile in luoghi di prestigio che prima erano preclusi, la cancel culture e la nuova sensibilità con cui si analizzano le opere e le vite di chi le compone, le dinamiche di potere. Invece che affermare, Tár pone tante domande, apre al dibattito spesso prendendo posizioni scomode. Cate Blanchett dà anima e corpo a una villain straordinaria. Vediamo tutti i suoi errori eppure, in qualche modo, li comprendiamo (senza giustificarli, si intenda).
La debolezza di Tár sta proprio in questo suo essere interlocutorio. Arrivati in fondo manca un colpo di coda, un qualcosa che tiri le fila meglio di come fanno gli ultimi venti minuti. Richiede una grande adesione e una voglia di seguirlo, soprattutto quando ci si sentirà osservatori estranei di dialoghi tecnici. Non è certamente un film per tutti e lo sforzo necessario per entrare nelle sue provocazioni potrebbe dare noia a chi cerca un thriller o un dramma classico. Una volta dentro però, Tár è una visione sconvolgente di altissima qualità.
Leggi tutto lo speciale - Tár è il film candidato all’Oscar 2023 con il miglior villain
Triangle of Sadness
Un film in tre atti, come i tre punti che segnano il triangolo della tristezza, la parte del volto che comunica le emozioni negative. Due giovani modelli, una crociera, una sopravvivenza disperata. In questi capitoli Ruben Östlund mette tutta la sua verve polemica contro l'1%. La ristretta cerchia di coloro che detengono il benessere globale; se lo sono guadagnati per fortuna o per furbizia (e spudoratezza), e sono qui il simbolo di un mondo destinato a non sopravvivere alle sfide del futuro.
Tra le cose positive di Triangle of Sadness c'è il ritorno della satira al cinema. Il grottesco, il fastidioso, ha poco spazio nei film capaci di uscire dall'esclusivo circuito dei festival. Ritrovarlo candidato come miglior film agli Oscar 2023 è un bel segno. Con alcune idee particolarmente brillanti (come ad esempio la differenza nei sorrisi dei marchi di alta moda e quelli più commerciali) il film riesce a divertire. La lunga sequenza di vomito non farà altro che imprimersi a fuoco in chi la guarda. È la chiave di lettura di tutto: mangiare, consumare, vomitare, e poi ricominciare.
Il problema è che Triangle of Sadness è anche un po' "facilotto" nelle critiche che propone, è estremamente furbo nell'attaccare individui che sentiamo molto lontani da noi. A meno che qualche spettatore non possieda più denaro di quanto ne possa spendere in due vite, come qualcuno dei personaggi, si avrà l'effetto di un'opera un po' ruffiana. Ci si sente bene, estremamente assolti, dopo aver visto questo sfogo. Ben poco si aggiunge al dibattito di mai sentito prima, si confermano invece molte delle idee che si hanno prima di entrare in sala. La satira si spegne così, e graffia meno di quanto si proponga di fare.
Leggi tutto lo speciale - Triangle of Sadness: salvare la faccia è meglio che sopravvivere
Women Talking
Un film militante che propone riflessioni giustissime e urgenti, ma lo fa con una tale fretta e schiettezza che si dimentica di sfumare e quindi di diventare tridimensionale. In altre parole: appassionante e coinvolgente.
Women Talking è tratto da un libro a sua volta ispirato a una storia vera agghiacciante di violenze ai danni delle donne di una comunità mennonita. Sarah Polley non cerca la verità documentaristica in questa trasposizione. Semmai vuole trascinare lo spettatore nei temi che propone. Ci riesce, in parte, ma rischia di convincere chi è già convinto. Il suo alto valore di denuncia lo terrà vivo in occasione di rassegne e giornate contro la violenza. Il resto dell'anno rischia di sparire nel dimenticatoio.
La sua presenza nella decina di candidati all'Oscar 2023 come miglior film appare molto politica, meno giustificata da valori artistici. C'era un altro titolo che avrebbe meritato allo stesso modo la nomination: Anche io. Il film di Maria Schrader, parla dello stesso tema e combatte le stesse battaglie. Affronta le violenze e gli abusi di Harvey Weinstein attraverso il giornalismo di inchiesta. Donne (le reporter Jodi Kantor e Megan Twohey) che ascoltano altre donne (le vittime di abusi) e prendono decisioni importanti per cambiare un mondo di uomini.
Leggi tutto lo speciale - “Women Talking – Il diritto di scegliere”: la voglia di cambiare le cose in un film più bello da discutere che da vedere
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