Oppenheimer e Killers of the Flower Moon continuano a far riflettere Hollywood sul “white gaze”

Da Killers of the Flower Moon a Oppenheimer, come il punto di vista dei bianchi prevale ancora a Hollywood (e fa discutere)

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Oppenheimer ha ricevuto un consenso unanime sulla maestosità tecnica della produzione e sulla forza della regia di Christopher Nolan. Le critiche più accese che gli sono state mosse riguardano un fatto narrativo: la scelta della sceneggiatura di concentrarsi, con uno sguardo di ammirazione scientifica, sull’impresa del progetto Manhattan. Il film mostra la bomba, la filma con grande fascinazione visiva e spettacolare, rappresentando le conseguenze degli attacchi a Hiroshima e Nagasaki solo nelle visioni di J. Robert Oppenheimer. L’omissione delle immagini con le vittime civili delle esplosioni ha fatto discutere per come schiaccia il film sulla prospettiva dello scienziato. I fatti veri sono raccontati volutamente da un punto di vista parziale e limitato. Una critica simile è stata mossa a Killers of the Flower Moon.

Martin Scorsese ha più volte raccontato come il film sia cambiato nel corso delle varie riscritture. Il suo centro è passato dalle indagini dell’FBI sugli omicidi, alla prospettiva con cui la Nazione Osage ha vissuto quel dramma collettivo. I Nativi hanno preso parte alle riprese condividendo la loro cultura e la loro lingua. Lily Gladstone si è guadagnata una nomination all’Oscar interpretando Mollie Burkhart come simbolo di un complesso rapporto tra il suo popolo e le persone che hanno depredato le loro loro terre. Nonostante questo l'accusa che gli viene rivolta è che, in una storia così legata alla Nazione Osage i due protagonisti, sono però, ancora una volta, bianchi.

Gladstone non parla di Killers of the Flower Moon

Voglio parlare di questa performance che è stata il momento più alto della mia carriera. Il miglior lavoro che penso di aver mai fatto. La storia più importante che aiuta ad accrescere la consapevolezza delle donne indigene scomparse e uccise. Un lavoro con uno dei più grandi, visionari e impegnati registi della mia vita. La più grande storia d’amore che abbia raccontato nella mia carriera. Questa performance si trova in un film che al momento non ha distribuzione. Pensavate che parlassi dell’altro film, vero?

Queste parole, pronunciate da Lily Gladstone a dicembre al conferimento dei premi di IndieWire, si riferiscono al film Fancy Dance, ancora senza distribuzione. Ha colpito particolarmente la stampa americana, dando nuova vita a una discussione in realtà mai sopita. Un interessante pezzo d’opinione dell'Hollywood Reporter è partito da qui per riflettere cosiddetto white gaze, accusando il sistema industria, più che i singoli registi, di parzialità nel mostrare solamente la prospettiva dei bianchi, rendendoli protagonisti.

La colpa è della filiera

Non è colpa di Christopher Nolan se Oppenheimer osserva la storia solo dal punto di vista americano e neanche di Martin Scorsese se i due personaggi più in vista non sono della Nazione Osage. È Hollywood che funziona così. Apocalypto e Lettere da Iwo Jima, si dice nell'articolo, sono due eccezioni alla regola di raccontare eventi reali dalla prospettiva bianca. 

Christopher Cote, il consulente linguistico di Killers of the Flower Moon è convinto che per fare un film con protagonisti Osage sarebbe servito un regista Osage. È dunque una questione di accesso alle risorse. Si ritorna così al problema Fancy Dance, presentato al Sundance con successo, e mai più rivisto nei listini. Queste storie non ricevono il supporto dell’industria a meno di avere dei giganti come Scorsese alla regia. 

È un problema di “scarsità narrativa” portato da un ecosistema dell’industria fortemente polarizzato. Le agenzie, le società di produzione e i distributori, negano ancora oggi le risorse ad artisti che vengono da contesti in passato esclusi. Una sorta di memoria muscolare, un’abitudine nelle scelte produttive, che ancora attraversa la filiera. Sono poche le eccezioni anche se, data la presenza di una maggiore diversità che ha preso negli ultimi anni le stagioni dei premi, sembra che non sia così. 

A ben guardare invece serve ancora un grande nome, una figura favorevole all’industria, per riuscire ad attirare le risorse che permettono di raccontare prospettive realmente diverse. Quando succede non è semplice nemmeno per loro farlo totalmente, senza compromessi. 

Il white gaze è veramente un problema?

Lo sguardo dei bianchi, che ancora tocca le narrazioni contemporanee e le indirizza su dei binari predefiniti, è oggetto di molte analisi fatte dalla critica oltreoceano. Lo è per un motivo di apertura alle minoranze, ma soprattutto perché lo studio di questi testi permette di svelare come funziona un sistema produttivo che si racconta come aperto, soprattutto dopo le passate polemiche (tra cui la più celebre #OscarsSoWhite), ma che in realtà ha ancora molte barriere.

L’impressione, dalla prospettiva europea, è che Hollywood abbia disperatamente bisogno di nuove storie. Queste possono arrivare proprio dalle voci di chi fino ad ora è stato in silenzio. Certo, nessun cambiamento arriva da un giorno all’altro. La sensibilità degli analisti sul tema è indice della percezione di un’urgenza nel porre rimedio. È però un percorso, la cui meta si raggiunge piccoli passi alla volta, in cui spesso la cosa più importante non è correre verso l’obiettivo, ma assicurarsi per lo meno di stare camminando in avanti. Questo si può fare individuando i giusti responsabili. Non tanto i registi, quanto chi ha il potere di approvare un film, farlo realizzare e infine portarlo agli occhi degli spettatori il cui responso sarà, come sempre, fondamentale per innescare il cambiamento.

Fonte: Hollywood Reporter

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